A cura dell'Avv. R. Porreca, Docente in area Legale

 

Se doveste chiedere ad un addetto ai lavori quale sia, nella legislazione italiana, uno degli elementi di maggiore rigidità del rapporto di lavoro, quello forse col più alto impatto organizzativo, non vi indicherà probabilmente il ben più famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (quello sulla cd tutela reale del posto di lavoro), quanto l’art. 2103 del codice civile, norma che disciplina il cd “Ius variandi” delle mansioni del lavoratore, oltre all’istituto del trasferimento (che non sarà oggetto della presente trattazione).

Si tratta infatti della norma che entra in gioco ogni qual volta il datore di lavoro decida di variare le mansioni o la sede di lavoro del proprio dipendente, circostanza resa frequente - ed in certa misura inevitabile - dal mutare  sempre più rapido delle esigenze organizzative e produttive dell’azienda. E’ ormai impensabile, infatti, che in carriere tendenzialmente molto lunghe (soprattutto dopo la riforma Fornero) non sorga mai la necessità di modificare, operativamente o territorialmente, la precedente collocazione del lavoratore. Ma i limiti di tale facoltà datoriale sono posti dalla norma in modo piuttosto stringente, cosa che rende spesso la variazione problematica sul lato gestionale, ed estremamente rischiosa su quello di un possibile contenzioso. Il demansionamento è infatti, ad oggi, una delle più frequenti cause di lite giudiziale fra azienda e lavoratore, peraltro con un altissimo tasso di aleatorietà, soprattutto a causa delle difficoltà insite nell’individuazione della “mansione equivalente”.

Ciò rende particolarmente utile un focus specifico sulla materia, che deve necessariamente partire dal testo legislativo. L’art. 2013 dispone quanto segue:

  1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
  2. Ogni patto contrario è nullo.

Nel disciplinare, quindi, la facoltà datoriale di modificare l’oggetto della obbligazione di lavoro ed i termini e le modalità di esecuzione, la norma individua i punti essenziali già nella prima preposizione.

Per essere correttamente posto in essere, lo ius variandi deve infatti avere a riferimento:

  • le mansioni assegnate in assunzione;
  • quelle superiori successivamente acquisite nel corso della carriera;
  • mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte in via effettiva.

Quanto precede, senza che la variazione comporti diminuzioni della retribuzione.

Andiamo a verificare con maggior grado di dettaglio come questi punti vengano declinati nella pratica aziendale.

La norma, ad evidente tutela del lavoratore, ne consente il percorso aziendale solo in orizzontale, verso mansioni equivalenti, o in alto, verso mansioni superiori, in questo caso con conseguenze in melius che verranno illustrate più avanti. Risulta invece vietata l’assegnazione a mansioni di contenuto inferiore (cd. demansionamento), anche in questo caso salvo quanto verrà  successivamente indicato.

Il movimento in “orizzontale” è proprio quello sulla mansione equivalente, per cui il requisito essenziale per stabilire la liceità della scelta datoriale, e quindi per evitare che il cambio disposto nei confronti del lavoratore configuri il tanto temuto demansionamento, sarà sul rispetto del requisito della equivalenza.

Caratteristiche dell’equivalenza.

Innanzitutto, l’equivalenza delle nuove mansioni con quelle assegnate in assunzione, o successivamente acquisite, prescinde da un puro parametro retributivo (non è quindi una mera comparazione economica).  Infatti, il punto essenziale è che le nuove mansioni non comportino un impoverimento del patrimonio professionale complessivo del lavoratore, inteso questo come insieme di attitudini, capacità,competenze, esperienze.

Nella pratica, il rispetto dell’equivalenza  viene valutato attraverso una analisi delle caratteristiche peculiari della mansione effettivamente svolta dal dipendente.

Il contenuto professionale di una mansione (la pesatura “in concreto” della posizione assegnata) va misurato attraverso la valorizzazione di numerosi parametri, appartenenti anche ad aspetti molto diversi. Il confronto può infatti avvenire sul piano economico, sia in senso retributivo (in questo senso, cfr. infra i profili retributivi) che di budget assegnato, su quello organizzativo (potere di firma, numero di risorse gestite), gerarchico (inquadramento, figura aziendale o interlocutore extra aziendale a cui riportare/relazionarsi, posizionamento nell’organigramma), operativo (compiti assegnati dal funzionigramma), di benefit / prerogative riconosciute allo specifico profilo professionale (polizza sanitaria, utilizzo di autovettura, assegnazione di pc portatile, ecc..). Solo la comparazione di tali singole voci può consentire di valutare le due mansioni, quella di partenza e quella di nuova assegnazione, sul piano dell’equivalenza.

Pertanto, si avrà equivalenza (e quindi la variazione sarà lecita) solo ove il confronto complessivo dei parametri qualificanti le due mansioni risultino in un sostanziale equilibrio quali – quantitativo, sul piano (oltre che retributivo) della responsabilità, dell’autonomia decisionale, della complessità, delle possibilità di sviluppo professionale, ecc.

Ora, appare di tutta evidenza da quanto precede come una simile operazione di raffronto, soprattutto se non riferibile a posizioni professionali dettagliatamente tipizzate da specifiche fonti (quali ad esempio i contratti collettivi nazionali o aziendali), essendo vincolata ad una molteplicità di fattori spesso misurabili ma non sempre univoci,  riservi sempre un certo margine di aleatorietà. Se infatti è facile il confronto su fattori quali il numero dei collaboratori gestiti, l’inquadramento o la posizione di riporto gerarchico, l’analisi si complica su parametri non oggettivi (i contenuti professionali e di competenza richiesti dalla mansione) e, soprattutto, sulla necessità di porre la valutazione come la risultante complessiva di tutti i fattori in gioco. Ed è proprio questo aspetto valutativo complesso che rende le cause per presunto demansionamento fra le più insidiose ed incerte del panorama giuslavoristico.

Ulteriori limitazioni ex art. 2103 c.c.

In merito, risulta ulteriormente vietata una variazione di mansione teoricamente equivalente o superiore, ove questa richieda un impegno di preparazione e competenza tecnica eccedente il confine della normalità, tale da esporre il lavoratore ad oneri troppo pesanti sul piano dell’adeguatezza e della responsabilità. Risulta altresì vietata (per quanto ovvio) una modalità di effettuazione dello ius variandi che comporti, in concreto, il  mancato impiego del lavoratore, dato che l’assenza di mansione effettiva - al di là  di possibili diverse indicazioni formali - configurerà sempre un caso di demansionamento.

Si tratta del caso classico dell’ex responsabile di una unità organizzativa che, a fronte di cambio di management o di variazioni organizzative, perda la sua precedente posizione, per essere assegnato a strutture più o meno fantomatiche create ad hoc (e spesso prive di risorse economiche e umane), a progetti speciali pseudo – consulenziali, a nuovi fantasiosi incarichi poco attinenti al core business aziendale, ecc..

Profili retributivi

Scendendo nel dettaglio degli aspetti economici, abbiamo visto come il mutamento delle mansioni non deve comportare una diminuzione del livello retributivo. Ciò vuol dire che non sono riducibili gli emolumenti  erogati in considerazione delle mansioni svolte, in via continuativa ed in rapporto sinallagmatico con la prestazione, mentre restano escluse le voci di indennità costituenti soltanto corrispettivo delle particolari modalità della prestazione lavorativa (le cosiddette indennità modali).

In pratica, a fronte di un cambio di mansioni, non tutte le volte che la busta paga del lavoratore subisca una diminuzione del liquidato si configura una scorretta applicazione  dello ius variandi. E’ infatti assolutamente lecito (addirittura opportuno) che si perdano quelle voci economiche tipicamente indennitarie, volte a compensare uno specifico disagio nello svolgimento della prestazione che non dovesse più sussistere in base alle nuove mansioni assegnate. Ad esempio, è assolutamente corretto che un cassiere di banca spostato ad un ufficio interno / di staff perda la cd “indennità di maneggio contante” (volta a compensare il rischio insito nella possibilità che un errore di conto causi una differenza di cassa), data l’assenza del rischio nel nuovo incarico. Allo stesso modo, l’indennità di turno non spetterà più al lavoratore assegnato ad altra mansione equivalente, che non comporti l’organizzazione in turni. Al contrario, le altre voci retributive che non abbiano tale natura non potranno essere in alcun modo ridotte dalla mera modifica della mansione.

Variazione di mansioni in violazione art. 2103 c.c.

Il lavoratore ha la possibilità di rifiutare lo svolgimento delle nuove mansioni, ove ne risulti la non equivalenza, in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., senza esporsi ad una eventuale responsabilità disciplinare. Tale rifiuto della prestazione è però ammesso solo se risulti come reazione  proporzionata e conforme a buona fede (il dipendente deve continuare, ad esempio, ad offrire al datore le prestazioni corrispondenti alla mansione originaria).

Deroghe al divieto di modifica in peius

Esiste anche una possibile deroga alla modifica peggiorativa dello status professionale del lavoratore. Risultano infatti validi gli accordi che vengano conclusi nell’esclusivo interesse del lavoratore.

In questo senso, può essere considerato lecito il demansionamento che venga disposto per conseguire la conservazione del posto di lavoro, risultando in concreto l’unica alternativa al licenziamento (tipico in questo senso è il caso della soppressione del posto di lavoro, cd licenziamento per giustificato motivo oggettivo). Nel caso di specie, infatti, la liceità deriva dalla tutela dell’interesse prevalente del lavoratore, che certamente verrebbe penalizzato più dalla perdita del posto di lavoro che dall’assegnazione ad una mansione di minore complessità.

Sotto un profilo collettivo, e sempre in base al medesimo principio, risultano altresì legittimi accordi sindacali peggiorativi ove risultino stipulati in corso di procedura di mobilità (ove mirino a riassorbire eccedenze di personale).

Mansioni superiori

In caso di Ius variandi esercitato in “verticale”, e quindi di assegnazione di mansioni superiori rispetto alle ultime svolte, l’art. 2103 c.c. prevede delle conseguenze sul lato economico e di carriera. Infatti per tale fattispecie vengono sostanzialmente individuati dalla norma  due scenari, dipendenti dal tempo di adibizione: l’assegnazione temporanea da un lato, e la promozione “automatica” (il cd. inquadramento minimo) dall’altro.

In dettaglio, ove l’assegnazione alla mansione superiore risulti temporanea – e quindi si protragga per un periodo limitato nel tempo, che l’articolo in questione individua in un massimo di tre mesi – è previsto esclusivamente, ancorché dall’inizio dell’adibizione, il diritto del lavoratore al migliore trattamento economico. Nel caso in cui, invece, tale adibizione si protragga oltre il previsto limite temporale, la nuova situazione professionale si consolida in capo al lavoratore, che acquisirà il nuovo inquadramento e, conseguentemente, stabilizzerà la nuova retribuzione prevista per il medesimo. Ciò, a meno che l’assegnazione temporanea sia stata disposta al fini di sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (ad es. sostituzione di lavoratrice in maternità).

Sulla tempistica di consolidamento del nuovo inquadramento, si consideri che altre disposizioni prevedono la possibilità di periodi di maturazione più lunghi, specialmente per determinate categorie professionali. Si consideri in tal senso che, in alcuni comparti (ad es. settore del Credito), per la popolazione dei Quadri Direttivi l’acquisizione di un inquadramento superiore a seguito di variazione dell’incarico si ottiene dopo un periodo di adibizione minimo di 6 mesi.

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