Strumenti alternativi d'investimento: quali rischi?

A cura di Francesco BrameriniManuela MalteseMario Recchia (partecipanti agli Executive Master in Giurista d'Impresa e Avvocato di Affari)


Introduzione

Negli ultimi anni si è assistito ad un sempre maggiore ricorso alle forme di risparmio gestito, che si affiancano all’investimento tradizionale in titoli di debito statali o depositi bancari, così determinando un accrescimento dei prodotti e servizi offerti ai risparmiatori, nell’ottica della massimizzazione del rendimento e contenimento del rischio.

Rientrano nel fenomeno del risparmio gestito i Fondi di Investimento Alternativi (FIA), definiti dalla Direttiva 2011/61/UE del Parlamento e del Consiglio sui Gestori di FIA (cd. Direttiva “AIFM”) come organismi di investimento collettivo deputati alla raccolta di capitali da una pluralità di investitori al fine di investirli in conformità di una politica di investimento ben definita a beneficio di tali investitori, per i quali non è necessaria l’autorizzazione richiesta per i fondi di investimento “tradizionali” dalla Direttiva 2009/65/CE in materia di Organismi di Investimento Collettivo in Valori Mobiliari (cd. Direttiva “UCITS IV”).

La scelta del legislatore dell’UE di definire i FIA in via residuale rispetto agli UCITS e di dettare una disciplina dettagliata che regolasse direttamente l’attività e la struttura dei Gestori di FIA, piuttosto che gli stessi Fondi, è dovuta all’eterogeneità dei caratteri con cui i FIA hanno trovato applicazione nella prassi e negli ordinamenti degli Stati membri dell’UE e alla forte differenziazione tra le varie tipologie di impiego sotto il profilo del rapporto rendimento/rischio, non potendosi, in tal modo, dare adito ad una armonizzazione completa, quanto piuttosto al mero intento di approntare un sistema di tutele degli investitori attraverso sistemi di gestione del rischio, garanzie di trasparenza ed informazione nei confronti degli investitori, nonché requisiti minimi di capitale per gli investitori non istituzionali.

Benché non esista una definizione sostanziale che qualifichi unitariamente l’intera categoria di FIA, in via approssimativa è possibile determinare le caratteristiche salienti di questi prodotti, che costituiscono una valida forma di diversificazione degli investimenti.

Invero, si tratta di strumenti il cui rendimento risulta essere in tutto o in parte svincolato dai public markets, con bassi livelli di volatilità attesa e una ottimizzazione nella gestione del portafoglio investimenti.

Tra gli impieghi rientranti nella categoria dei FIA, il presente articolo si ripropone di far luce su alcuni di questi strumenti: i Fondi di Private Equity e il Venture Capital mentre degli Hedge Funds e delle  SPAC e prebooking companies parleremo qui.

 

Fondi di Private Equity

 

In un periodo caratterizzato da una forte crisi economica e dalla conseguente difficoltà di rimediare liquidità sui mercati economici, il Private Equity rappresenta, forse, la giusta formula per apportare capitale di rischio e dare nuovo impulso al rilancio delle imprese.

Con questo termine si fa riferimento a quelle operazioni di investimento, in imprese generalmente non quotate, realizzate da operatori professionali, attraverso la partecipazione al capitale di rischio dell’impresa.

Si tratta, quindi, di attività di assunzione di partecipazioni durevoli e rilevanti nel capitale delle imprese, con lo scopo di accrescere il valore della partecipazione nel medio termine, per realizzare poi un guadagno consistente al momento della dismissione della stessa.

Dal punto di vista legale, gli elementi che contraddistinguono il Private Equity, devono essere ricercati nell’ambito delle operazioni di “mergers & acquisition ossia quegli aspetti economico-strategici della finanza d’impresa.

In Italia, il veicolo più diffuso per le operazioni di Private Equity è il fondo mobiliare chiuso[1] disciplinato dalla l. n. 344 del 1993.

Questo si presenta come un fondo gestito da una S. G. R., autorizzata preventivamente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con un importo fisso di sottoscrizioni, raggiunto il quale le stesse si chiudono. Si tratta quindi di investimenti ben definiti, di cui viene dichiarato in anticipo l’attività, le dimensioni e la durata.

La materia ora è regolata interamente dal TUF[2], dal quale si ricava, a norma dell’art. 1[3], che il fondo è autonomo e separato patrimonialmente dalla SGR che ne ha promosso la raccolta (fund rasing), risultando quindi separato dalla stessa e da ogni altro patrimonio da essa gestito.

Saranno presenti così una pluralità di investitori partecipanti, che sottoscriveranno quote di pertinenza in cui il fondo è suddiviso.

Diversamente dal contesto italiano, in quello anglosassone, dove il Private Equity è nato, il modello del fondo è rappresentato di solito da una società a capitale variabile (limited partnership) stabilita tra i diversi sottoscrittori (limited partners) che raccolgono capitale, dove la disponibilità è movimentata da una società di advisory, formata dai componenti del team di gestione (general partner), ossia i managers.

La formula anglosassone sembra effettivamente avere più vantaggi rispetto a quella adottata dal nostro ordinamento, con una struttura organizzativa più reattiva, in grado di offrire agli investitori migliori condizioni contrattuali.

Difatti, la principale differenza tra i due modelli riguarda, la separazione tra il capitale della società di gestione, quello dei fondi e all’interno di questi di ciascun investitore, dove nel nostro caso agli investitori viene attribuita una percentuale in base al numero di quote sottoscritte, e su queste è stabilita la percentuale di appartenenza al fondo.

Nei fondi anglosassoni, invece, gli investitori entrano a titolo di soci a responsabilità limitata nel patrimonio del fondo.

Per quanto riguarda le dinamiche del fondo, è necessario precisare che l’ammontare

delle sottoscrizioni non viene versato immediatamente dall’investitore, ma nel tempo e in maniera proporzionale agli investimenti deliberati dal gestore.

Quindi nel corso di un arco temporale predefinito, in base alle esigenze di liquidità del fondo, sarà richiesta agli investitori la proporzione dell’ammontare sottoscritto che corrisponde all’importo necessario, ossi i richiami degli impegni (draw-downs).

Inoltre, all’interno di questo lasso di tempo prestabilito, dovranno poi essere liberati gli assets da parte del gestore, al fine di restituire agli investitori l’importo versato e gli eventuali guadagni.

L’investitore inoltre è obbligato a non cedere prima del tempo le quote da lui sottoscritte.

Questo strumento d’investimento ha mostrato negli ultimi anni una crescita costante, Il rendimento annuo lordo aggregato (Internal rate of return, IRR) prodotto da questi fondi nel 2013 è stato del 18,2%, il dato è seguito dal +20% dell’anno 2014, confermando così la bontà di tale forma d’investimento che si mantiene stabile anche nel 2015[4].

Un punto di domanda resta invece per l’anno in corso.

Gli effetti della Brexit non saranno di certo immediati, ma è possibile immaginare problemi inerenti la libera circolazione dei capitali.

Se è pur vero che questi non sembrano a rischio, altrettanto non può dirsi per la circolazione dei passaporti per attività di fund rasing, commercializzazione e gestione di capitali.

Se la libera circolazione dei servizi subisse delle limitazioni o venissero bloccati passaporti a paesi terzi per periodi prolungati, l’impatto sul settore potrebbe risultare rilevante.

Difatti i gestori con base in Gran Bretagna che svolgevano le proprie attività all’interno della UE, con la Brexit potrebbero perdere tali passaporti, con l’eventualità di dovere trasferire la gestione dei fondi a gestori terzi stabiliti all’interno dell’Unione, con relativo assoggettamento alle loro discipline[5].

Tuttavia non è ancora possibile delineare le potenziali implicazioni della Brexit.

 

Il Venture Capital

 

Nel genus degli investimenti nel capitale di rischio, oltre al Private Equity propriamente detto, che orienta i propri investimenti al buy out o replacement capital di società già consolidate e mature (MBOs, LBOs ed altri), la prassi anglosassone e quella di altri Paesi solo successivamente, ha conosciuto lo sviluppo progressivo di un ulteriore strumento di investimento, il Venture Capital.

Si tratta di un’operazione di investimento nel capitale di rischio di una società, in genere non quotate, mediante l’acquisizione temporanea di quote partecipative, con lo scopo di dismetterle in un arco temporale

medio- lungo (3-10 anni) realizzando un capital gain[6] dall’accrescimento del valore della società, dopo averla finanziata nella sua fase iniziale (early stage) o di sviluppo (expansion financing).

Nel primo caso, l’intervento è volto a sostenere le fasi di start up dell’impresa, fornendo capitale ed organizzazione amministrativa, o di un business di un brevetto (generalmente tecnologico), con un livello di rischio elevatissimo per il fatto che si tratterà di “testare” sul mercato una formula imprenditoriale inedita. Nel secondo caso, invece, l’operazione sostiene un piano di crescita, anche tramite acquisizione di altra impresa esterna, attraverso un aumento di capitale o un prestito obbligazionario convertibile, con relativo maggiore contenimento del rischio per l’investitore, a fronte di un prodotto già presente sul mercato ed una operazione che si limita a garantire il mero supporto allo sviluppo di un ‘impresa già matura, che avrà, dunque, natura di consulenza più che finanziaria.

Oltre a fornire mezzi finanziari, l’investitore istituzionale deve anche mettere a disposizione la propria esperienza professionale, le proprie competenze manageriali, consulenza strategica, di marketing e organizzativa che possano contribuire allo sviluppo dell’impresa.

Il venture capitalist, socio temporaneo, deve possedere capacità tecnico- manageriali tali da garantire il successo del proprio investimento.

Questi, infatti, non potrà sottrarsi ad una attenta verifica circa le prospettive di crescita dell’impresa e la fattibilità del piano di sviluppo che si intende finanziare, anche perché il quantum di rendimento che il venture capitalist potrà ottenere, dipenderà strettamente dal successo del business realizzato, mentre quest’ultimo costituirà a sua volta un “volano” per il tessuto economico ed imprenditoriale del territorio.

In prospettiva, la valutazione preliminare di fattibilità del piano finanziato acquista qui un maggior valore pregnante rispetto all’investimento in un fondo di Private Equity e ciò in considerazione del maggior rischio che il venture capitalist accetta di fronteggiare non il proprio investimento.

Potrebbe profilarsi, infatti, un rischio di rapida obsolescenza o mancato successo commerciale del prodotto (soprattutto se tecnologico), anche per l’ingresso sul mercato di un concorrente, nonché il rischio di un necessario rifinanziamento dell’operazione e di impossibilità di smobilizzo del capitale investito in early stage per mancato raggiungimento di dimensioni di crescita prefissate.

Dalla condivisione del rischio d’impresa tra imprenditore ed investitore, parimenti interessato al successo dell’operazione finanziata al fine di ottenere un guadagno dalla dismissione della propria quota partecipativa, deriva il tratto distintivo rispetto alle forme di investimento “tradizionali”, di certo estranee a qualsiasi assetto societario che garantisca la stretta collaborazione e la costante informazione dell’investitore, pur lasciando all’imprenditore e al gruppo dirigenziale la piena autonomia di scelta sulle strategie aziendali.

Il venture capitalist gode, infatti, di una serie di strumenti volti a colmare il problema delle asimmetrie informative sia in fase di verifica della validità tecnica e commerciale dell’idea imprenditoriale, sia nella fase di gestione dell’impresa, ma soprattutto una serie di garanzie, ormai invalse nella prassi, contro possibili comportamenti opportunistici o superficiali dell’imprenditore nella conduzioni dell’impresa.

Lo stage financing consente all’investitore di suddividere il proprio conferimento in più trances, ognuna delle quali da apportare generalmente al momento del raggiungimento di determinati risultati programmati da parte dell’imprenditore (milestones), in modo da ridurre l’esposizione al rischio del venture capitalist e da consentirgli un diritto di abbandono del progetto, che costituisce anche stimolo per l’imprenditore alla gestione dell’impresa secondo diligenza.

Inoltre, il venture capitalist può essere garantito contro l’eventuale “fallimento” dell’attività d’impresa finanziata mediante il ricorso alla diversificazione delle forme di investimento del complessivo apporto finanziario, che vedrebbe, accanto ad azioni ed obbligazioni, anche le cd. convertible preferred shares, titoli “ibridi” di capitale e di debito che attribuiscono un predeterminato dividendo privilegiato e la restituzione privilegiata del capitale in caso di liquidazione della società rispetto agli azionisti ordinari, nonché un’opzione di rivendita dei titoli alla società e la conversione automatica in azioni ordinarie al ricorrere di determinate circostanze predeterminate (come in caso di IPO).

Seppure socio di minoranza, è possibile che venture capitalist ed imprenditore stipulino patti parasociali volti a garantire al primo un potere di controllo e monitoraggio dell’attività d’impresa, come la board representation, che consiste nel diritto di nominare e revocare o esprimere l’assenso sulla nomina di un determinato numero di componenti del cda, del collegio sindacale o dirigenti e i restrictive covenants, che consistono nel preventivo assenso del venture capitalist su alcune operazione predeterminate, anche di competenza dell’assemblea straordinaria[7].

Dal lato dell’offerta, un incentivo determinante è costituito dalla introduzione di regole di  corporate governance (anche con patti parasociali)che in sé garantiscano il consolidamento della cooperazione tra imprenditore ed investitore, in particolare riguardanti la stabilità della compagine sociale, circolazione delle informazioni societarie anche tra investitori, nonché le garanzie partecipative del socio investitore al governo dell’impresa.

I Fondi di Venture Capital, ad oggi, sono disciplinati in via armonizzata con Regolamento UE n. 345/2013 del Parlamento e del Consiglio, che prevede un regime di benefici e obblighi per tutti quei Fondi, con valore non eccedente gli €500 milioni, che ne soddisfino i requisiti di applicazione e che provvederanno alla raccolta e all’investimento del capitale di rischio con la denominazione “EuVECA”[8], così soggiacendo esclusivamente alla disciplina dell’UE, mentre quella degli Stati membri troverà applicazione ancora per i soli Fondi privi della denominazione di “garanzia”[9] perché soggetti esclusi dall’ambito di applicazione del Regolamento o si tratta di gestori non- UE che gestiscono o commercializzano FIA non- UE.

Al fine di ottenere la denominazione “EuVECA” per il Fondo, il Gestore provvede alla registrazione presso le competenti Autorità del proprio Stato, che accerteranno la sussistenza dei requisiti richiesti per il Gestore[10] e per il Fondo[11], nonché per gli investitori, posto che i Fondi qualificati potranno offrire quote e azioni ai soli investitori professionali o ad altri investitori che comunque si impegnino ad investire almeno €100.000 e dichiarino di essere consapevoli dei rischi connessi all’investimento previsto.

L’attività principale dei Fondi deve essere quella di investimento nelle PMI che rientreranno nei canoni di ammissibilità nel portafoglio del Fondo (qualifying portfolio undertakings)[12], mentre sono previsti obblighi rafforzati in tema di doveri di diligenza nella gestione e di informazione nei confronti di investitori ed Autorità nazionali di Vigilanza[13].

 

[1] I fondi chiusi sono stati introdotti nell’ordinamento italiano nel 1993 più precisamente con la legge n. 344 del 14/08/1993. Il legislatore, non ha fornito una definizione esplicita di fondo chiuso ma ne ha disciplinato il ciclo di vita andando quindi a dare indicazioni precise circa l’istituzione del fondo, la partecipazione e la gestione e dettando regole precise relativamente la costituzione e l’attività delle società di gestione che vogliono istituire fondi chiusi.

[2]Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52”.

[3] Ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. j, del TUF (testo vigente dopo l'art. 32, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in L. 30 luglio 2010, n. 122): il fondo comune di investimento è “il patrimonio autonomo raccolto, mediante una o più emissioni di quote, tra una pluralità di investitori con finalità di investire lo stesso sulla base di una predeterminata politica di investimento; suddiviso in quote di pertinenza di una pluralità di partecipanti; gestito in monte, nell'interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi".

[4] Italian Private Equity and Venture Capital – Market: 2015 performance, in www.aifi.it.

[5] In particolare Direttiva Europea 2009/65/CE, UCITS Undertakings for Collective Investments in Transferable Securities (organismi di investimento collettivo in valori mobiliari).

[6] Naturalmente, maggiori oneri fiscali sui capital gains potrebbero determinare un interesse dell’investitore alla delocalizzazione del proprio investimento in contesti fiscali più vantaggiosi.

[7] È il caso degli aumenti di capitale, emissione di obbligazioni, fusioni, scissioni, cessioni di rami d’azienda, modifica dell’oggetto sociale, approvazione del bilancio, distribuzione dei dividendi, acquisto di partecipazioni in altre società.

[8] European Venture Capital Fund.

[9] La normativa UE in materia di “EuVECA” è speculare a quella sui GEIFA (Dir. AIFM) in quanto quest’ultima prevede un regime obbligatorio per tutti i Fondi superiori ad €500 milioni, mentre per i Fondi di valore inferiore, il Gestore potrà liberamente ed alternativamente optare per la disciplina dei Fondi non- UCITS o per quella più snella sugli “EuVECA”.

[10] Ai sensi dell’art. 2: “Il presente regolamento si applica ai gestori di organismi di investimento collettivo di cui all'articolo 3, lettera a), che soddisfino le seguenti condizioni: a) le loro attività gestite non superano complessivamente la soglia di cui all'articolo 3, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/61/UE; b) sono stabiliti nell'Unione; c) sono tenuti alla registrazione presso le autorità competenti del proprio Stato membro d'origine ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2011/61/UE; e d) gestiscono portafogli di fondi per il Venture Capital qualificati”.

[11] A norma dell’art. 3 lett. b), è considerato Fondo per il Venture Capital qualificato, qualsiasi “organismo di investimento collettivo che: i) intende investire almeno il 70 % dell'ammontare complessivo dei propri conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato in attività che sono investimenti ammissibili, calcolati sulla base degli importi investibili previa deduzione di tutti i costi pertinenti e delle attività di cassa e di altre disponibilità liquide, entro un periodo di tempo indicato nel suo regolamento o nei suoi atti costitutivi; ii) non utilizza oltre il 30 % dell'ammontare complessivo dei propri conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato per l'acquisizione di attività che non sono investimenti ammissibili, calcolati sulla base degli importi investibili previa deduzione di tutti i costi pertinenti e delle attività di cassa e di altre disponibilità liquide; iii) è stabilito nel territorio di uno Stato membro”.

[12] L’art. 3 lett. d) definisce la “impresa di portafoglio ammissibile” come quella che: ” i) al momento dell'investimento da parte del fondo per il Venture Capital qualificato: — non è ammessa alla negoziazione su un mercato regolamentato né a partecipare a un sistema multilaterale di negoziazione (MTF) quali definiti dall'articolo 4, paragrafo 1, punti 14 e 15, della direttiva 2004/39/CE, — impiega meno di 250 dipendenti, e — ha un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di EUR o un bilancio annuale totale non superiore a 43 milioni di EUR; ii) in sé non è un organismo di investimento collettivo”; non è un ente creditizio, un’impresa di assicurazione o di investimento, una società di partecipazione finanziaria o di partecipazione finanziaria mista; deve essere stabilita nel territorio di uno Stato membro o di uno Stato terzo a condizione di reciprocità.

[13] Artt. 7, 10, 12, 13 del Regol. UE n. 345/2013.

 

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