A cura di M. Monnanni e V. Piazza (partecipanti in area Legale)

Il lavoratore subordinato: i casi di reintegra e le indennità a tutele crescenti

Il legislatore, con gli interventi della Legge n. 92 del 28 giugno 2012 (Fornero) e del Decreto Legislativo n. 23 del 4 marzo 2015 (Jobs Act), ha modificato le dinamiche giuslavoristiche adeguando una parte sostanziale del diritto del lavoro alle necessità dettate dalla globalizzazione e dalle attività produttive.

Il nuovo quadro normativo, in astratto, persegue la realizzazione di un mercato del lavoro dinamico, inclusivo e capace di contribuire tanto alla crescita quanto alla creazione di un’occupazione di qualità, mediante una ridistribuzione più equa delle tutele dell’impiego ed una rimodulazione dei margini di flessibilità adeguata alle esigenze del mutato contesto socio economico.

A questo proposito, una notevole importanza ha avuto la nuova disciplina sui licenziamenti individuali che, nell’ottica di riequilibrare il rapporto tra datore di lavoro e prestatore d’opera, ha introdotto rilevanti novità nei confronti dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, a far data dal 7 marzo 2015, all’interno delle imprese che superano il numero dei 15 dipendenti.

Le ipotesi di reintegra a seguito di licenziamento illegittimo hanno subito una considerevole modifica applicativa, in quanto i nuovi rapporti di lavoro portano in dote sia minori previsioni di ripristino sia indennità risarcitorie definite a tutele crescenti, poiché predeterminate in considerazione dell’anzianità di servizio maturata dal lavoratore.

Per osservare i casi di mutamento più eclatanti della disciplina, è necessario soffermarsi sulla nuova previsione dettata dall’articolo 3 del Decreto Legislativo n. 23/2015.

Tale norma, infatti, ha riscritto le conseguenze giuridiche che seguono all’adozione di un provvedimento di licenziamento in assenza di “giustificato motivo oggettivo, soggettivo o di giusta causa[1]”, escludendo la reintegra sul lavoro nei casi di assenza dei presupposti oggettivi e limitando il ripristino nello svolgimento dell’attività lavorativa, alle sole ipotesi di licenziamenti in cui ricorrono i requisiti soggettivi o di giusta causa, previa la dimostrazione in giudizio dell’insussistenza del fatto materiale addebitato.

La norma, inoltre, ha rivisto il capitolo che concerne la condanna del datore di lavoro all’esborso delle indennità risarcitorie determinando, al netto di quanto eventualmente percepito da altre attività lavorative (aliunde perceptum), il pagamento fino ad un massimo di dodici mensilità con obbligo di contribuzione previdenziale, nei casi di reintegrazione nel posto di lavoro, e la corresponsione in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità, in tutti gli altri casi.

Con riguardo alle ipotesi di licenziamento motivate sulla base di presupposti che sono in difetto con i principi costituzionali o che sono contrari alle massime dell’ordinamento giuridico, il legislatore del 2015ha invece riproposto i profili già introdotti dalla Legge n. 92/2012.

Nei casi di “licenziamento discriminatorio”[2], nelle situazioni di nullità previste dalla “legge”[3] o laddove il licenziamento sia dichiarato inefficace perché intimato in forma orale, infatti, l’articolo 2 del Decreto Legislativo n. 23/2015 conferma la reintegra e dispone la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito, stabilendo un’indennità, mai inferiore a cinque mensilità, corrispondente all’ultima retribuzione percepita dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettivo ripristino, dedotto l’eventuale aliunde perceptum.

Il legislatore, inoltre, ha ribadito che in tutti i casi ove si preveda la nullità del licenziamento e la contestuale reintegrazione, il lavoratore possa richiedere,come provvedimento alternativo, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità, senza obbligo di contribuzione previdenziale.

La natura fiduciaria del rapporto dirigenziale: il criterio di giustificatezza

La disciplina normativa in materia di licenziamento individuale, così come prevista dalla Legge n. 92/2012 e dal Decreto Legislativo n. 23/2015, non trova applicazione nei confronti dei lavoratori dirigenti in quanto essi sono considerati parte di una categoria legale a sé stante, in ragione delle rilevanti peculiarità che ne investono e ne determinano l’operato.

Per i giudici della Corte di Cassazione,il dirigente è colui che, riconosciute le peculiari competenze professionali, “esercita la propria attività con autonomia e poteri decisionali[4]” ed incontra il solo limite di sottostare al rispetto delle direttive generali impartite dal datore di lavoro.

L’opera prestata dal soggetto che ricopre l’incarico dirigenziale, quindi, si distingue notevolmente dalle funzioni svolte dal lavoratore subordinato sia per le prerogative ed i poteri di cui è investito sia, e soprattutto, per lo stretto vincolo fiduciario che lo lega ai vertici aziendali.

I danni e le conseguenze che possono derivare a seguito di comportamenti od atteggiamenti non conformi all’incarico dirigenziale, giustificano allora l’adozione di una disciplina del licenziamento meno vincolata agli schemi normativi e più predisposta all’azione discrezionale del datore di lavoro.

Secondo affermata giurisprudenza, l’azione di recesso del dirigente è sottratta agli ordinari vincoli sostanziali del giustificato motivo, oggettivo e soggettivo, e rientra invece all’interno dell’ambito applicativo della ‘giustificatezza’, nozione che la Corte di Cassazione ha voluto coniare per identificare come, da un’intensa fiducia professionale, derivi “uno spazio più ampio dei [fattori] idonei a scuoterla”[5].

Nella definizione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, i giudici della Suprema Corte hanno statuito la rilevanza di qualsiasi motivo volto a sorreggere la legittimità di tale atto, con i soli limiti del “rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto e del divieto di licenziamento discriminatorio”[6].

Su questa base, il principio di correttezza e buona fede costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, sia laddove venga intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, sia con riferimento a ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale.

Ove la legittimità dell’azione di recesso per giustificatezza sia carente degli elementi di correttezza e buona fede, quindi, non sono da escludersi le adozioni di misure e provvedimenti capaci di riflettersi positivamente sul dirigente licenziato.

L’articolo 23 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi [Industria], al riguardo, dispone il divieto di risolvere il rapporto professionale con il dirigente, senza la dovuta prescrizione di un congruo termine di preavviso, attualmente compreso tra un minimo di sei mesi ed un massimo di dodici mesi, sulla base dell’anzianità maturata in azienda.

Ne consegue, che in caso di licenziamento effettuato secondo i parametri della giustificatezza ma in violazione dei termini informativi, il datore di lavoro sarà comunque obbligato a versare un’indennità nei confronti del dirigente, pari alla retribuzione che questi avrebbe percepito durante il periodo di mancato preavviso, computato nell’anzianità e soggetta ai contributi previdenziali ed assistenziali.

Laddove, invece, in sede di contenzioso non dovesse riconoscersi la sussistenza del requisito della giustificatezza del licenziamento, l’articolo 19, comma 15, del CCNL Industria dispone, oltre al risarcimento per il mancato preavviso, il pagamento di un’indennità supplementare graduabile in base all’anzianità e compresa tra un minimo di due e un massimo di ventiquattro mensilità.

 

[1] Licenziamento per giustificato motivo oggettivo ricorre quando ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso, rendano non proseguibile in maniera proficua il rapporto intercorso tra le parti, rendendo necessario il licenziamento del prestatore a tutela dell’attività aziendale.

Licenziamento per giustificato motivo soggettivo si ha nel caso di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. È riferito, esclusivamente, alla sua persona e, ovviamente, non può considerarsi inadempiente il lavoratore che non abbia seguito le lavorazioni per inadempimento del datore di lavoro o perché quest’ultimo non lo abbia messo in condizione di svolgere la sua attività.

Licenziamento per giusta causa, invece, si intende l’estinzione del contratto di lavoro determinato da causa che non consenta la prosecuzione del rapporto (ex art. 2119 Codice Civile), ovvero in tutti quei casi in cui il comportamento del lavoratore sul posto di lavoro sia stato talmente grave da minare le fondamenta del rapporto stesso (es. gravi inadempienze o comportamenti penalmente rilevanti).

[2] I casi sono previsti dall’articolo 15 della Legge del 20 maggio 1970 (Statuto dei Lavoratori) che così dispone:

«È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:

a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;

b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali».

[3]A titolo meramente esemplificativo riportiamo i casi di licenziamenti comminati in costanza di matrimonio, in violazione delle tutele previste in materia di maternità e paternità o, ancora, conseguenti a un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del Codice Civile.

[4] Cass. 22 febbraio 2011, n. 4272.

[5] Cass. 7 agosto 2004, n. 15322.

[6] Cass. 5 ottobre 2007, n. 20895.

Riferimenti Bibliografici

  • BALLESTRERO M.V. – DE SIMONE G., Diritto del Lavoro, Giappichelli, Torino, 2012.
  • CANNIZZARO D., Il licenziamento del dirigente, in «www.ssalex.com», 2015.
  • CASSONE G., Licenziamento del Dirigente: preavviso e indennità supplementare di recesso nei CCNL Industria e Terziario, in «www.studiocassone.it», 2015.
  • FIATA E., La nuova disciplina dei licenziamenti, in «materiale didattico MELIUSform», Roma, 2017.
  • GONELLI S. – DOLCINI S., Sulla giustificatezza del licenziamento del dirigente, in «www.gonelli.it», 2015.
  • PALOMBARINI S. – MANTEGAZZA S., Licenziamento del dirigente: la giusta causa, il giustificato motivo e la giustificatezza, in «www.palombarini-mantegazza.it», 2016.
  • PORRECA R., Jobs Act – Contratto a tutele crescenti, in «materiale didattico MELIUSform», Roma, 2017.
  • PROIETTI M., Il licenziamento del dirigente: giusta causa e giustificatezza, in «www.diritto24.ilsole24ore.com», 2014.
  • ROSATO F. – ROMEO A. – PROIETTI R., La nuova disciplina del licenziamento: il D. Lgs. 23/2015, in «www.meliusform.it», 2016.
  • RUGGIERO A., La nuova disciplina dei licenziamenti individuali, in «www.diritto24.ilsole24ore.com», 2015.

Torna indietro