Jobs Act

A cura di Emanuele Cretaro, Chiara Ferrauti, Roberto Priolo, Mariangela Romeo (partecipanti agli Executive Master in Giurista d'Impresa e Avvocato di Affari - RM)


La riforma in materia giuslavoristica si è nuovamente concentrata sulla disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo. A partire dal presupposto per il quale una maggiore flessibilità in uscita dal rapporto di lavoro possa rivestire un trampolino di lancio per gli investimenti produttivi e, di conseguenza, per l’incremento dell’occupazione. Questa maggiore flessibilità comporta, da un lato, una ulteriore riduzione dell’area di incidenza della tutela reale reintegratoria, presentandosi come ipotesi pressoché eccezionali, e dall’altro, nella generalizzazione della tutela di carattere indennitario; una tutela oltre tutto rigidamente predefinita nella quantità, così da lasciare alle imprese la maggior certezza possibile sui c.d. costi di separazione.

Le linee guida del nuovo intervento dettate dalla legge delega 10 dicembre 2014, n. 183,  poi attuate e sviluppate dal d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, introducono un contratto a tempo indeterminato che risulta differente solo con riguardo allo speciale regime del licenziamento, soprannominato a «tutele crescenti» in quanto, in caso di licenziamento ingiustificato, consegue una indennità risarcitoria commisurata all’anzianità, con la reintegra riservata solo ad alcune ipotesi di licenziamento disciplinare, oltre che al licenziamento nullo o discriminatorio.

Da una lettura dell'art. 3, comma 1, per cui «salvo quanto disposto dal comma 2 del presente articolo, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento», si evince che la reintegra è divenuta solo una eccezione in caso di licenziamento ingiustificato, ristretta a quanto previsto dal comma 2. Comma la cui formulazione, tra l'altro, risulta contorta, «esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento[…]».

Della grande riforma denominata globalmente «Jobs Act», si finisce per parlare solo o per lo più in relazione ai licenziamenti. Come se in Italia ci fossero solo i licenziamenti, da cui tutto nascerebbe o dipenderebbe. Parlare solo di licenziamenti stanca, ma oltretutto si rischia di non poter vagliare correttamente la più o meno buona riuscita della riforma.

La filosofia che sta alla base del Jobs Act è la riorganizzazione del diritto del lavoro secondo i paradigmi della flexicurity.

La flessicurezza rappresenta la crasi tra flessibilità e sicurezza, due concetti opposti tra loro che danno luogo ad un ossimoro. La sicurezza deve intendersi come protezioni/tutele concesse al lavoratore, che per il datore di lavoro, per ovvie ragioni, costituiscono costi e dunque rigidità. Sembra ipocrita negare il contrasto tra flessibilità e sicurezza, perché ciò che per il datore di lavoro è rigidità (e di conseguenza un costo) per il lavoratore è sicurezza, e ciò che per il datore di lavoro è flessibilità per il lavoratore è insicurezza.

I modelli con cui superare questo contrasto esistono. Uno di questi è proprio la flessicurezza, che proprio attraverso questa crasi lessicale e concettuale cercherebbe di superare l'intrinseco ossimoro tra aumento della flessibilità per il datore di lavoro e contestuale aumento della sicurezza per il lavoratore.

La scommessa che si intende vincere è quella di avere un lavoratore che si possa definire ancora tale, ma che sia più funzionale alle esigenze dei cicli produttivi delle imprese.

Si vuol far si che il datore di lavoro acquisisca quanta più flessibilità possibile nell'utilizzazione della forza lavoro, in modo tale da essere più competitivo e concorrenziale di fronte la globalizzazione dei mercati e il lavoratore acquisisca tutele, non nel rapporto (altrimenti torniamo alla rigidità) ma nel mercato.

La protezione del lavoratore, dunque, viene spostata dal rapporto al mercato.

Non ci si deve dimenticare, infatti, come la flexicurity sia un insieme di politiche economiche e sociali, dove vengono a convivere non solo interventi di tipo normativo, ma anche e soprattutto di tipo economico.

Ricorrere alla sicurezza del mercato significa in primis che se il lavoratore perde il posto di lavoro non perde comunque il reddito, potenziando il sistema delle prevenzioni sociali. Il sistema di flessicurezza, inoltre, mira al perseguimento della «occupabilità» (non si parla più di «occupazione»), ossia della capacità e possibilità per il lavoratore di trovare un lavoro. Il lavoratore non deve temere di perdere il posto di lavoro perché in ogni caso ne troverà un altro. In altri termini, il lavoratore non ha la stabilità di un solo rapporto di lavoro, ma ha la sicurezza di un lavoro (qualunque esso sia) e tra un lavoro ed un altro ha la sicurezza del reddito.

Il lavoro diventa precario per il lavoratore, ma questa precarietà consente all'impresa di avere manodopera flessibile e di conseguenza di essere più competitiva perché ha le capacità di adattare una delle componenti fondamentali della produzione alle necessità contingenti e mutevoli del mercato.

Il paradigma della flexicurity, ribadiamolo, consiste in un innalzamento della flessibilità delle imprese e della sicurezza dei lavoratori (non nel rapporto, ma nel mercato).

Ma la protezione del lavoratore come viene spostata dal rapporto al mercato?

Innanzitutto, attraverso la presenza di un mercato del lavoro flessibile, dal quale gli agenti economici (i lavoratori) entrano ed escono facilmente. In questo mercato assumere e licenziare lavoratori è molto più semplice e ha pochi costi. Se il mercato del lavoro espelle lavoratori, fa perdere a questi anche il reddito da lavoro, almeno fino al momento in cui non trovino un altro posto di lavoro e rientrino nel mercato flessibile; fino a quel momento questi, rimangono sprovvisti di reddito, ecco che qui, come anticipato, sopperisce il sistema del Welfare, essendo sostentati da politiche passive del lavoro, in particolare dalla c.d. indennità di disoccupazione, finché non riescano nuovamente ad essere riassorbiti nel mondo del lavoro (in tempi più o meno lunghi), grazie appunto alla flessibilità del mercato.

Solo una parte dei lavoratori, prima espulsi, riescono a rientrare nel mercato, un'altra fetta di questi lavoratori, al contrario, non riesce ad essere automaticamente riassorbita dalla flessibilità. Se il lavoratore non riesce ad essere riassorbito automaticamente dal mercato del lavoro, nonostante la sua flessibilità, è possibile che il motivo sia dovuto al fatto che le qualifiche del lavoratore siano ormai obsolete o che il mercato cerchi lavoratori in grado di svolgere mansioni e compiti diversi rispetto a quelli che il lavoratore sa svolgere. Altra ragione, ancora, potrebbe essere quella per cui il lavoratore, essendo stato fuori dal mercato del lavoro, non è a conoscenza dell'esistenza di posti di lavoro vacanti o, verosimilmente, non sa dove cercarlo. Queste problematiche vengono risolte tramite il sistema delle politiche attive per il lavoro (riqualificazione, servizi per l'impiego etc.) che consentono così a questa fetta di lavoratori di rientrare nel mercato flessibile.

 

 

Utopia?

Questo sistema complessivamente rende virtuoso il lavoro, ma presenta alcune criticità. Innanzitutto si tratta di un sistema molto costoso, perché se trasferiamo la protezione dalle imprese al mercato, quella protezione che prima era posta a carico delle imprese adesso viene sobbarcata dallo Stato, tutto viene demandato alla fiscalità generale, circostanza che comporta una probabile impennata della pressione fiscale. Inoltre, questo sistema funziona solo con i mercati in crescita. Solo i mercati che crescono cercano altri lavoratori qualificati; se il mercato è saturo o in recesso, e vengono espulsi una serie di lavoratori, anche se questi verranno riqualificati, non verranno più assunti. Se il mercato è in recessione il sistema sarà ancora più costoso, perché saranno molti di più i lavoratori espulsi e non riassorbiti che avranno bisogno dell'assistenza previdenziale e di essere riqualificati.

Non dimentichiamo che sia il sistema del Welfare, sia le politiche attive e passive per il lavoro, sono finanziate dallo Stato che per trovare i denari necessari aumenterà la pressione fiscale; tale aumento porterà ad un ulteriore contrazione del mercato del lavoro (più alte sono le tasse, più imprese cadono nel baratro) e, di conseguenza, ad una espulsione maggiore di lavoratori.

Fatte queste considerazioni si rende necessario comprendere se il sistema, così come pensato,  sia un sistema efficiente e utilizzabile nel nostro ordinamento.

L'Italia, sotto il profilo dell'organizzazione sociale, è caratterizzata da un basso livello di protezione sociale, ma da un altissimo livello di protezione giuridica (ossia forte e rigida regolazione), poiché viene ad innescarsi un meccanismo volto a proteggere l'individuo per non farlo giungere ad uno stato di bisogno.

In altri termini, tutto si fonda sulla protezione del rapporto di lavoro individuale annullando alla radice la possibilità che il lavoratore si trovi in stato di bisogno, cercando di stabilizzare il più possibile il contratto di lavoro. Sulla base di questo meccanismo, se il lavoratore dovesse perdere il lavoro avrebbe delle protezioni lasche o blande rispetto a quelle di altri Stati dove si investe quattro volte di più per le cc.dd. politiche attive e passive del lavoro (sostegno al reddito, all'occupazione etc.).

Invero, la caratteristica del diritto del lavoro (in Italia) rispetto al diritto civile, è quella di fondarsi fondamentalmente su norme inderogabili, ossia non dispositive. Questo tipo di norme servono a tutelare i lavoratori e, di conseguenza, a riequilibrare il mercato del lavoro (c.d. monopsonico). Per cui fondamentalmente, essendo il lavoratore il soggetto debole del mercato, si interviene proteggendolo dalle distorsioni dello stesso. La norma inderogabile, dunque, altro non è che una norma anti-distorsiva. Questo sistema di protezione funzionava in un contesto pre-globalizzazione essendoci condizioni economiche che consentivano al sistema di funzionare.

L'esigenza di cambiamento è evidente. Ma questo non giustifica l'applicazione del modello della flexicurity tout court, così come applicato in altri Stati.

Questo modello, infatti, deve essere adattato ai vari contesti, non esiste una flessicurezza uguale per tutti, questa deve essere declinata in connessione all'organizzazione sociale, giuridica ed economica dello Stato nella quale si applica, pena il fallimento dell'intervento stesso.

Tutto ciò può essere suffragato andando a comparare la situazione italiana con quella dello Stato danese, uno di quegli stati dove il sistema della flexicurity è stato utilizzato in maniera virtuosa. Innanzitutto, come anticipato, lo Stato italiano investe meno di un quarto di ciò che spende la Danimarca per le politiche attive del lavoro. Inoltre, in Danimarca, così come in tutti paesi scandinavi, c'è una certa omogeneità sociale ed economica su tutto il territorio, pertanto si registra una certa mobilità sociale, al contrario che in Italia, dove si registra una forte disomogeneità sociale ed economica all'interno del territorio (il nord è più ricco del sud). Difatti, ciò che rende funzionale un sistema di questo tipo è la c.d. mobilità sociale, cioè la capacità di cambiare lavoro; ovviamente ad influire sulla mobilità ci sono tutta una serie di fattori come la grandezza del territorio, la densità demografica, l'omogeneità socio-economica del Paese appunto. Infine precisiamo come l'etica del lavoro danese non ha eguali; se in Danimarca una legge prescrive che la donna non deve essere discriminata sul posto di lavoro, il datore di lavoro non se lo sogna nemmeno di disattenderla, grazie proprio a quest'etica pervasiva che è radicata nel territorio.

La situazione italiana avrebbe meritato sicuramente un intervento sincronico e consapevole. Intervenire in modo sincronico, in modo tale da garantire equilibrio, cioè aumentare a piccole dosi la flessibilità nel rapporto (perdita di tutta una serie di tutele/sicurezze), compensando tale perdita con una sempre più maggiore sicurezza nel mercato. L'intervento, oltre a dover essere sincronico, sarebbe dovuto essere consapevole; invero, il perseguimento di questo nuovo equilibrio, non doveva essere il risultato di un cambiamento di assetti irrazionale, dovendosi stabilire a priori quale misure di sicurezza (nel mercato, esterna al rapporto di lavoro) controbilanciassero le misure di flessibilità. Si tratta, quindi, di una valutazione che doveva essere fatta ex ante, vagliando l'efficacia delle misure da adottare sulla base di un disegno razionale.

Non occorrevano di certo economisti di chissà quale calibro per rendersi conto della follia a monte della riforma così come pensata. Si parla fittiziamente di «tutele crescenti», ma si ravvisa al contrario una totale assenza di tutele, essendo evidente come le tutele di cui si sta discutendo non sono (come ci vorrebbero far credere) solo e soltanto quelle intrinseche al rapporto di lavoro.

Non stupisce pertanto, come la riforma finisca per assolvere una funzione prettamente politica, risultando soltanto un buono slogan di cambiamento e innovazione per molti, un completo disastro, al contrario, per le generazioni future.

La cronaca recente mette in guardia, si registrano i primi «licenziati a tutele crescenti» a pochi mesi dall'assunzione, prospettandosi ondate di licenziamenti di quei lavoratori assunti con quelli che ora possiamo definire più realisticamente contratti «precari» a tempo indeterminato.

Il tutto confermato dal dato normativo, ove la reintegrazione è ammessa per «l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Anche per il decreto a «tutele crescenti», così come per la c.d. legge Fornero, il problema è quello della sussistenza o insussistenza del «fatto», «materiale» o meno.

Sulla base del dato letterale della disposizione è ipotizzabile come, per evitare la reintegrazione, sia sufficiente «un fatto anche simbolico o ridicolo, purché vero, senza considerare neppure l’elemento psicologico. All’estremo, ma comune a molti commentatori, si è ipotizzato che a licenziare un lavoratore perché mangia una caramella è illegittimo, ma se il mangiare la caramella come “fatto materiale” è vero si eviterebbe la reintegrazione ed il licenziamento, pure illegittimo, rimarrebbe valido, solo con il pagamento di una somma tutto sommato modesta».

Particolarmente importante per tentare di rimediare a tale “inconveniente” è un primo messaggio della Cassazione sui nuovi licenziamenti. La Suprema Corte ha chiarito che «quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva. In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18, quarto comma, St. lav.». In altri termini, risultato di tale pronuncia è che un fatto materiale se non-illecito è «inesistente».

La stessa sentenza giunge alla medesima conclusione, seppur tramite obiter dictum, anche in ordine alla non-proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione. Di regola l'esempio prospettato è quello del licenziamento per ritardo di pochissimi minuti, che è certamente inadempimento ma normalmente di scarsa o scarsissima importanza e, anche se vero come «fatto materiale», in ogni caso non giustifica un licenziamento, essendo anche qui equivalente all’insussistenza.

L’irrilevanza giuridica del fatto, per non-illiceità o per scarsa o scarsissima importanza, «equivale alla sua insussistenza materiale», con diritto alla reintegrazione ex art. 18 dello Statuto in base sia alla legge Fornero, sia al decreto a «tutele crescenti» cui la Cassazione con la sentenza 20540/2015 ha fatto riferimento, anche senza nominarlo, richiamando il fatto «materiale», lanciando così un messaggio pro futuro, affinché non si disperda del tutto la dignità (fin troppo calpestata) del lavoratore.

 

Riferimenti Bibliografici

 

  • Altalex, 22 ottobre 2015. Nota di Michele Miscione tratta da Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer
  • Cammaleri C., Flexicurity as a measuring leakage protection of workers: between “social pollution” and “total security”, 14 Novembre 2012
  • De Marco P., Licenziamento disciplinare: nuove indicazioni della Corte di Cassazione sulla “insussistenza del fatto contestato” e sulla conseguente applicazione della reintegra, 30 ottobre 2015 in www.filodiritto.com
  • Miscione M., Tutele crescenti: un'ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in Diritto e Pratica del Lavoro, 2015

 

 

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