Il DLGS 23/2015

A cura di Francesca RosatoAntonino RomeoRiccardo Proietti (partecipanti all'Executive Master in Giurista d'Impresa)


La globalizzazione e le esigenze produttive che ne sono derivate hanno lanciato una sfida “a tutto campo” al modo di fare impresa europeo, che ha condotto alla necessità, non solo di ripensare l’intero apparato industriale e imprenditoriale, ma anche a riconsiderare la legislazione giuslavoristica dei paesi membri dell’UE che, già da tempo, puntava a promuovere il lavoro a tempo parziale come strumento per aumentare la flessibilità nella costituzione dei rapporti (Direttiva Ce n. 97/81/Ce del 15/15/1997).

Le buone intenzioni tuttavia, sono rimaste sulla carta poiché le esigenze del libero mercato andavano verso direzioni totalmente differenti. La flessibilità su base volontaria immaginata a livello Europeo si è ben presto rivelata un mezzo farraginoso, non scelto dal lavoratore, ma imposto dal datore, né le singole legislazioni nazionali hanno trovato un modo per tutelare la parte debole del contratto; al contrario, l’elasticità che ne è derivata ha immediatamente aperto le porte ad una deregulation dell’intero mercato del lavoro, ivi compresa la tutela del lavoro a tempo indeterminato.

In altri termini, il tentativo di ridare slancio all’economia europea, attraverso l’inserimento di istituti nel mercato del lavoro sempre più flessibili, si è trasformato nel grimaldello per demolire definitivamente le tutele che lo stato sociale aveva posto nei confronti del lavoratore: l’equilibrio tra esigenze produttive del datore e l’aspirazione di vita del prestatore ha subito un assestamento a tutto vantaggio del primo.

Dal 7 marzo 2016, data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 23/2015, infatti, per i nuovi assunti non sono più operanti le garanzie previste dal c.d. Statuto dei Lavoratori (L.300/1970), né quelle comunque ridotte della c.d. Legge Fornero (L. 92/2012).

Ma vediamo insieme i principali aspetti della normativa:

 

Licenziamento individuale

 

L’art. 2 del D. LGS. 23/2015 rappresenta l’unico caso in cui il Giudice del Lavoro, dichiarando la nullità del licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro da cui è stato estromesso.

La tutela è tanto forte quanto ristretta: i poteri del Giudice ex art. 2, infatti, possono essere esercitati solo in limitati casi, ovvero quando il licenziamento risulta discriminatorio a norma dell’art. 15 L. 300/1970 perché contrario ad altre norme di legge che ne prescrivano la nullità: intimato in concomitanza con il matrimonio; divieti di licenziamento ex art. 54, c.. 1-6-7-9 D. Lgs. 151/2001; nullità espresse dalla legge; motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c.

Il rapporto di lavoro si intende comunque risolto quando il lavoratore, a seguito dell’ordine del Giudice, non abbia ripreso il servizio entro 30 giorni e salvo il caso in cui abbia chiesto l’indennità di cui al comma 3.

Il 3° comma, infatti, prevede la possibilità offerta al lavoratore di scegliere al posto della reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR non assoggettata a contribuzione previdenziale (netta), fermo restando il diritto al risarcimento del danno.

Qualora il lavoratore opti per l’indennità anziché per il reintegro, questa andrà decurtata di quanto già percepito dal lavoratore per aver svolto altre attività lavorative.

La suddetta disciplina si applica anche nel caso in cui il Giudice dovesse accertare il difetto di giustificazione per motivo sostanzialmente riconducibile a disabilità fisica o psichica del lavoratore.

 

Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa

 

1) È l’ipotesi normativa prevista dall’art. 3 D. Lgs. 23/2015, in cui l’assenza di giustificati motivi oggettivi o soggettivi o di giusta causa, rendano illegittimo il licenziamento.

In tali casi è esclusa la reintegrazione del lavoratore il quale ha diritto al pagamento di un’indennità netta (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio da un minimo di quattro ad un massimo di 24 mensilità.

  • Licenziamento per Giusta Causa s’intende l’estinzione del contratto di lavoro determinato da causa che non consenta la prosecuzione del rapporto (ex art 2119 c.c.), ovvero in tutti quei casi in cui il comportamento del lavoratore sul posto di lavoro sia stato talmente grave da minare le fondamenta del rapporto stesso (Es. gravi inadempienze; comportamenti penalmente rilevanti; ecc.). Non esiste una casistica di riferimento e il Giudice deve procedere all’accertamento del presupposto caso per caso.
  •  Licenziamento per Giustificato Motivo Soggettivo si ha nel caso di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. È riferito esclusivamente alla sua persona e, ovviamente, non può considerarsi inadempiente il lavoratore che non ha seguito le lavorazioni per inadempimento del datore o perché quest’ultimo non lo ha messo in condizione di svolgere la sua attività.
  • Licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo, invece, ricorre quando ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, rendano non proseguibile in maniera proficua il rapporto intercorso tra le parti (art 3 Legge. 604/1996), rendendo necessario il licenziamento del prestatore a tutela dell’attività aziendale.

2) Il 2° comma dell’articolo 3, inoltre, prevede la reintegrazione del lavoratore al proprio posto, nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto addebitato come presupposto per il licenziamento, esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e giusta causa. In altri termini la reintegra è prevista nel caso in cui il datore abbia fondato l’estinzione del rapporto su un fatto che non è mai realmente avvenuto.

É importante notare come, per espressa previsione normativa, al giudice sia vietato sindacare la proporzione del licenziamento rispetto alla contestazione su cui il medesimo poggia: “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

L’indennità risarcitoria che segue la reintegra deve essere commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo che va dal licenziamento fino alla effettiva reintegrazione dedotto quanto percepito per altre attività lavorative svolte nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro.

L’indennità, però, non potrà eccedere le 12 mensilità mentre i contributi previdenziali dovranno essere interamente versati.

 

Vizi formali e procedurali

                                                                               

Il D. Lgs. 23/2015 demolisce la tutela accolta dalla legge e generalmente riconosciuta dalla giurisprudenza, che rendevano illegittimo il licenziamento proceduralmente viziato.

Con la novella dell’art. 4, invece, ogni vizio di forma e di procedura non potrà più essere causa di illegittimità del provvedimento che pone fine al rapporto di lavoro e il giudice, anche ove ne accerti la sussistenza dovrà dichiarare estinto il rapporto di lavoro e condannare il datore al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari ad un mese per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 12.

 

Offerta di conciliazione

 

Rimane da analizzare, infine, l’ulteriore tutela che il legislatore ha ritenuto di offrire al contraente forte del rapporto.

Infatti all’art. 6 del decreto n. 23/2015 è previsto che le parti possano arrivare alla negoziazione della conclusione del rapporto prevedendo, quindi incentivando ndr., il datore di lavoro ad offrire un importo netto (non tassabile) che va da 1 a 18 mensilità.

L’accettazione di tale assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento, anche ove già proposta.

 

Conclusioni

 

Appare evidente come le tutele del lavoratore, parte debole del contratto, abbiano visto una forte riduzione rispetto a quelle riferite al vecchio regime ante riforma.

E così gli assunti a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo 2015, in caso di licenziamento, difficilmente avranno la possibilità di essere reintegrati dal Giudice Unico del Lavoro, ma potranno comunque contare su una tutela indennitaria, peraltro nemmeno forte.

In attesa che la Giurisprudenza di vertice dia una lettura della norma sopra esposta è possibile solo riferirsi alla dottrina, in verità molto critica sul punto, e ai rilievi di costituzionalità legittimamente avanzati dalla stessa.

Il sindacato, infatti, poggia sulla diversa tutela che il regime entrato in vigore il 7 marzo 2015 offre al lavoratore licenziato, sia rispetto ai lavoratori sottoposti alla normativa previgente, che ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, esclusi dal Decreto 23/2015.

Per il momento non si possono che condividere i dubbi circa le scelte operate dal legislatore, che con un colpo di spugna ha cancellato quasi cinquanta anni di storia di leggi volte alla tutela del lavoratore, sacrificando le conquiste sindacali alla politica del libero mercato.

 

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