A cura di E. Giardino (partecipante del Master in Avvocato d’Affari)

Introduzione

Del patto di opzione (1) (2) di diritto comune non si rinviene, per così dire, una sua formale definizione. Unico tangibile riferimento normativo (3) è dato, per la prima volta (4) sul punto, dall’art. 1331, cod. civ..

Secondo la lettera della norma «Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329. Se per l’accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice».

Stando così le cose, ad una prima lettura, i due istituti parrebbero quasi delineare la medesima fattispecie giuridica (5), nella quale l’opzione rappresenterebbe una species (per così dire estensiva) della proposta irrevocabile.

In realtà, ad una più oculata analisi del dettato normativo, emergono peculiari e sostanziali tratti distintivi.

Primo tra tutti la circostanza secondo la quale con il patto di opzione si addiviene alla conclusione di un valido ed efficace contratto (6) (7) (unilaterale, bilaterale o plurilaterale) veicolante un’obbligazione di facere in forza della quale il proponente, di comune accordo, si vincola con l’opzionario a mantenere ferma, per gli effetti dell’art. 1329, cod. civ., la propria proposta contrattuale, inglobante, ab origine, i prefigurati elementi essenziali di quello che sarà, ove esercitata siffatta facoltà potestativa, il (secondo e ulteriore) contratto (già) sottostante (sottoforma di proposta irretrattabile) al patto medesimo (8). A fortiori, primaria dottrina definisce siffatto fenomeno giuridico quale «biunivocità del vincolo contrattuale» (9).

Di diverso tenore appare dunque la proposta irrevocabile la quale, per sua intrinseca conformazione strutturale, rappresentando atto unilaterale, abbisognerà dell’accettazione del destinatario per poter addivenire alla creazione di un valido (primo) vincolo negoziale.

Di guisa che nel primo caso si parlerà di contratto e nel secondo di atto unilaterale.

Detto questo, ulteriore peculiarità distintiva è rinvenibile nella previsione del termine (10); dove nell’opzione risulterà onere previsionale facoltativo a carico delle parti (con facoltà di ricorso suppletivo alla tutela giurisdizionale ex art. 1183, cod. civ.), nella proposta irrevocabile diviene elemento essenziale, ancorando, tale ultima, la propria stessa irrevocabilità al perdurare di un segmento temporale necessario e predefinito e mutando, in mancanza di apposizione, in proposta semplice.

Inoltre, ai sensi dell’art. 1329, co. 2, cod. civ., la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente non toglierà «efficacia alla proposta (irrevocabile), salvo che la natura dell’affare o altre circostanze escludano tale efficacia». Lo stesso dicasi per l’opzione, ove un siffatto evento non risulterebbe in ogni caso in grado di scalfire il rapporto di soggezione e di potere (già perfetto), potendo l’opzionario, in ossequio alla summenzionata norma ivi richiamata, rivalere il suo credito nei confronti degli eredi del de cuius (11).

Ne discende inoltre, secondo alcuna dottrina (12), l’ulteriore peculiarità strutturale in forza della quale, mentre con l’opzione l’onerato conserverebbe il diritto di accettare (entro il termine) la proposta quand’anche già fatta oggetto di un preventivo rifiuto (13), nella proposta irrevocabile il rifiuto stesso ne genererebbe ex se la sua immediata caducazione. Questo in quanto, come sopra esplicato, nel primo caso si parla di contratto (risolvibile per mutuo consenso, risolventesi per scadenza del termine o manifestarsi dell’evento risolutivamente condizionante, nonché intaccabile dalle patologie negoziali di legge (14)), mentre nel secondo di atto unilaterale. Anche se, a mio avviso, una comunicazione espressa di non accettazione della proposta soggetta ad opzione parrebbe configurare, unendosi alla concorde e posteriore volontà del concedente, una tipica ipotesi di risoluzione per mutuo consenso delle parti.

Delineati così i confini di più critico rilievo tra le fattispecie sopraesposte risulta quindi opportuno riorientare l’analisi sulla struttura giuridica del patto di opzione strictu sensu inteso e sul rapporto intercorrente tra lo stesso ed il (futuro ed eventuale) contratto veicolato dall’offerta irrevocabile opzionata, onde poterne così comprendere le ragioni di un suo utilizzo nella pratica degli affari commerciali.

I. LA STRUTTURA GIURIDICA DEL PATTO

Come sopra introdotto, la mancanza di una precisa definizione normativa del contratto di opzione è stata foriera di un proliferare di interventi giurisprudenziali finalizzati, per larga parte, alla individuazione e demarcazione degli elementi costitutivi della fattispecie.

In tal senso, sul punto, si sono susseguite molteplici pronunce di legittimità (15) le quali, in buona sostanza, hanno complessivamente enucleato il seguente assunto: devasi intendere il patto di opzione quale accordo bilaterale a «formazione successiva» o «progressiva» veicolante al proprio interno una proposta irrevocabile fungente da atto propulsivo che, unendosi con lo (eventuale) esercizio del diritto potestativo offerto all’opzionario (con il patto), porta alla conclusione di un secondo, ulteriore e già predefinito contratto; si avrà così un rapporto strumentale preparatorio (patto di opzione) ed un (futuro ed eventuale) rapporto finale, caratterizzato, per tali sue peculiarità, da una formazione “progressiva” del proprio vincolo obbligatorio.

È stato altresì ribadito (16) (17) come la proposta irrevocabile contenuta nel patto (dunque, latu sensu, l’opzione stessa (18)), onde poter garantire una valida conclusione del contratto finale (19) con la sola semplice manifestazione di accettazione da parte dell’opzionario (i.e. atto unilaterale recettizio richiedente medesima forma della proposta), debba naturalmente già contenere tutti gli elementi essenziali e accidentali richiesti (per volontà di legge o di parte) dallo stipulando contratto (forma (20), oggetto (21), causa (22), condizioni, termini (23) e oneri).

Inoltre, la predetta, ove tardiva o includente ex novo ulteriori elementi, dovrà essere considerata, secondo maggioritaria dottrina (24), nuova proposta contrattuale, ferma restando però, per la seconda ipotesi, la perdurante validità dell’opzione stessa. Tutt’al più, le parti, secondo alcuna corrente, potranno includere pattiziamente, in favore del concedente, la facoltà di recesso con o senza corrispettivo, benché, secondo altri, tale deroga rappresenterebbe di contro la conclusione di (un diverso negozio di) “opzione atipica” ex art. 1322, co. 2, cod. civ. (25).

Pertanto, a mio avviso, il patto di opzione null’altro sarebbe che il contenitore giuridico di una offerta irrevocabile preventivamente confezionata dalle parti (entrambe interessate (26)) che, per tale sua natura irrevocabile, risulterà idoneo a conferire al patto stesso quell’effetto «reale» (27) capace (come per l’art. 1329, cod. civ.) di privare di efficacia una sua eventuale revoca (o meglio, trattandosi di contratto, «una dichiarazione di non voler adempiere» da parte del concedente). Si passa così da un’efficacia meramente obbligatoria, quale quella contrattuale – privata, altresì, in tale dimensione, secondo dottrina, dell’esperibilità del rimedio di cui all’art. 2932, cod. civ. (28) –, ad un effetto tipicamente “reale” quale quello della irrevocabilità della proposta contenuta nel patto; ragione, tale ultima, a sostegno del richiamo operato dal legislatore, all’interno del dettato dell’art. 1331, cod. civ., all’art. 1329, cod. civ..

Naturalmente – e da qui si trae la ragione della diffusa (ma non essenziale) conformazione onerosa (29) (30) del patto di opzione – in pendenza del termine o della condizione risolutiva o sospensiva la parte concedente dovrà astenersi (31) dal porre in essere ogni condotta potenzialmente lesiva del diritto del prescelto; pena, il risarcimento del danno (32).

Di contro, nulla vieterà alle parti, diversamente da quanto ritenibile per la proposta irrevocabile, ove il tipo finale lo consenta e rispettandone altresì i vincoli di forma richiesti, di cedere, con il consenso anche preventivo (ex art. 1407, cod. civ.) del concedente o dell’oblato ceduto, il contratto per atto tra vivi o in caso di morte, di stipulare un patto di opzione con riserva di nomina del favorito (ex art. 1401, cod. civ.) o a favore di terzi opzionari (ex art. 1411, cod. civ.). Tali facoltà, unite alle fattispecie circolatorie legali derogabili, ai sensi del richiamato art. 1329, co. 2, cod. civ., della successione mortis causa o per sopravvenuta incapacità (tale ultima, riferita al solo proponente, post conclusione del contratto di opzione), nel patto (non avente ad oggetto prestazioni strettamente personali e non basato sull’intuitu personae), ad opera degli eredi o del legale rappresentante (33) dell’oblato.

Di guisa che, da quest’angolo di analisi, risulta dunque possibile cogliere la sostanziale differenza con l’art. 1229, cod. civ. e dal punto di vista strutturale (contratto ex art. 1331, cod. civ. contro atto unilaterale ex art. 1229, cod. civ.) e dal punto di vista dello scioglimento del vincolo giuridico (mutuo consenso e cause ammesse dalla legge ex art. 1372, cod. civ., nonché scadenza del termine ex art. 1331, cod. civ. o manifestarsi dell’evento risolutivamente condizionante ex art. 1353, cod. civ. contro rifiuto dell’offerta e scadenza del termine ex art. 1229 cod. civ.).

II. L’UTILIZZO DEL PATTO DI OPZIONE DI DIRITTO COMUNE NELLE OPERAZIONI SOCIETARIE

La particolare «duttilità» (34) di un siffatto strumento giuridico consente un suo efficace impiego anche nella pratica degli affari commerciali (35); precisamente, per quel che qui rileva, nella cessione delle partecipazioni societarie (36) in generale e nelle operazioni finanziarie di “private equity” e “venture capital” (37) nonché industriali di “joint venture” (38).

Più precisamente, quanto al primo ordine di ragioni, ovverosia, circolazione della proprietà societaria, tale struttura contrattuale, consentendo alle parti di conferire all’oblato la facoltà alternativa o congiunta di esercizio di un diritto potestativo di vendita o di acquisto di una determinata partecipazione allo scoccare di un termine (opzione tipo “europeo”), entro uno specifico segmento temporale (opzione tipo “americana”), a specifiche cadenze temporali (opzione tipo “bermuda”) ovvero al o sino al verificarsi di un evento futuro e incerto (condizione sospensiva o risolutiva) - secondo i termini e le condizioni stabilite (ex ante e di comune accordo (39)) nell’offerta irrevocabile opzionata ex art. 1331 cod. civ. -, permettendo di conseguenza di “posizionare” a piacere il momento di corresponsione del (o di parte del) prezzo pattuito (40), giustifica così il suo utilizzo sulla concreta possibilità di riuscire a donare, in ultima analisi, la libertà di aggirare il necessario ricorso al capitale a debito o di ricorrervi con più agevole facilità commerciale. Tale dato a generale vantaggio e del compratore, il quale disporrà così di un maggiore potere di acquisto beneficiato da una più efficiente gestione del patrimonio sociale e del venditore, il quale si troverà a disporre, di conseguenza, di una più ampia offerta di mercato; il tutto a finale beneficio di una dinamica circolazione del “controllo societario”.

Medesimo ambito e ragione applicativa per le clausole di risoluzione delle situazioni di stallo (“buy out”), le quali consentiranno al socio di maggioranza (opzionario), in situazioni di blocco decisionale (“deadlock”), di acquistare, si rammenta, al valore attualizzato, la partecipazione di minoranza verso la quale pende tale situazione.

Diversamente, con riferimento alle operazioni finanziarie strutturate (“private equity” e “venture capital”) e strategico industriali (“joint venture”), tali contratti fondano la loro causa di utilizzo sulla possibilità di consentire alla parte acquirente (investitore o “partner” strategico) di fare ingresso nella compagine societaria (anche, soprattutto nei casi di “JV”, di nuova costituzione – “Special Purpose Veicle”) in veste, soprattutto nei casi di “venture capital”, di socio di minoranza (41) per poi, ove raggiunto lo scopo d’impresa alla base dell’operazione (“triggering event”), uscirne, esercitando il rispettivo diritto potestativo di vendita.

Naturalmente, siffatti meccanismi contrattuali, come meglio si esporrà a seguire, onde poter spiegare la ricercata efficacia operativa, troveranno nella pratica opportuna sede all’interno di specifiche clausole intra o extra societarie le quali, così strutturate, andranno ad affiancare la disciplina legale del tipo (societario).

III. (Segue). LE OPZIONI “COMMERCIALI” A STRUTTURA “PUT” E “CALL”

Come sopra introdotto, la struttura dell’opzione, nella prassi della cessione delle partecipazioni societarie, può assumere la forma di due distinti congegni giuridici (42) denominati, a seconda che operino in favore del venditore o del compratore, rispettivamente, opzione di vendita e opzione di acquisto, identificate nella prassi commerciale quali opzioni tipo “put” e tipo “call” (43), entrambe rientranti, a prescindere dalla locuzione che le identifica, nel genus delle opzioni commerciali di diritto comune (44).

Più precisamente, con l’opzione tipo “put” il compratore concedente sottoscriverà un’offerta irrevocabile di acquisto a termine o condizionata a termine conferendo al venditore oblato la facoltà di esercizio del diritto potestativo di vendita della partecipazione al prezzo (pre)pattuito ad intervalli di tempo prestabiliti, entro il o al termine ovvero al o sino al manifestarsi a termine della condizione (sospensiva o risolutiva) concordata.

Viceversa, nell’opzione tipo “call”, offrendosi da parte del venditore un’offerta irrevocabile di vendita, il compratore opzionario beneficerà del diritto potestativo di acquisto a termine o condizionato a termine della partecipazione societaria al prezzo (pre)stabilito dalle parti nel contratto d’opzione medesimo.

Inoltre, per meglio realizzare ciò, benché non espressamente richiesto dalla norma, si tenderà nella prassi all’apposizione di precise condizioni sospensive o risolutive a termine (45) in forza delle quale si regolerà l’operatività del diritto potestativo concesso.

Tali ultime ben potranno coincidere, nel caso di opzione di acquisto tipo “call”, al raggiungimento da parte della società interessata di determinati risultati operativi o, di contro, nel caso di opzione di vendita tipo “put”, al mancato raggiungimento dei margini di reddito opzionati nell’accordo.

Tutto quanto sopra, esposto nella sua intima struttura genetico funzionale, per il caso di circolazione “ordinaria” di partecipazione societaria.

Sovente però, nella prassi, tali opzioni trovano ulteriore collocazione anche in sottogeneri di accordi extra sociali, “ancillari” a situazioni statutarie e funzionalmente destinati a regolare predeterminate fasi occorrenti in operazioni societarie strutturate (quali appunto operazioni finanziarie di “private equity” e “venture capital”, finanziamenti partecipativi in “project financing” e sinergie industriali di “joint venture” (46)) (47).

Lo scopo di una siffatta ulteriore applicazione risiede nella possibilità negoziale di consentire all’oblato (investitore a termine o “partner” strategico temporaneo d’impresa) la facoltà di uscita dalla compagine societaria mediante l’esercizio di un’opzione di vendita tipo “put” – “exit attivo” – ovvero di conferire all’originario cedente il diritto potestativo di (ri)acquistare la partecipazione ceduta per il tramite di un’opzione di acquisto tipo “call” – “exit passivo” – o ancora di stipulare la vendita e acquisto reciproco di partecipazioni mediante opzioni tipo “put & call” incrociate; tutte, quali alternative pattizie al regime legale del recesso (art. 2437, cod. civ. per S.p.A. e, per rinvio ex art. 2454, cod. civ., S.a.p.az., nonché art. 2473, cod. civ. per S.r.l.), dell’esclusione del socio (art. 2473 bis, cod. civ. per S.r.l.) o del riscatto delle azioni (art. 2437 sexies, cod. civ. per S.p.A. e, per rinvio ex art. 2454, cod. civ., S.a.p.az.) nelle società di capitali (48).

IV. (Segue). IL PROBLEMA DEL “FINANZIAMENTO PARTECIPATIVO”

Punto cruciale di contrattazione e di collegata criticità di sistema, assume, in tali sedi, il prezzo (49) di (ri)cessione delle azioni o quote da corrispondersi al momento dell’uscita del socio “temporaneo” dalla compagine societaria.

Più nello specifico, tale ultimo potrà risultare predeterminato, ossia “fisso” – opzione tipo “put” o tipo “call” a “prezzo predefinito” – ovvero predeterminabile secondo criteri di calcolo prefigurati in contratto, ossia “variabile” – opzione tipo “put” o tipo “call” con “prezzo determinato a consuntivo” (50).

Richiamando i concetti espressi nel paragrafo che precede in tema di meccanismi di cessione delle partecipazioni, parrebbe dunque sorgere un conflitto per violazione di legge tra l’operatività di tali contratti (rectius clausole contenenti opzioni di (ri)cessione) ed il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265, cod. civ. (51) (52).

Più precisamente, essendo il prezzo della partecipazione cedenda (53) determinato anteriormente all’esercizio della (porzione di) attività (a rischio) d’impresa sviluppantesi nell’arco temporale coperto da opzione, risulterebbe dunque infranto il rapporto proporzionale e dinamico tra il valore patrimoniale della partecipazione e le attività e passività dell’ente, rimanendo il primo immune al mutare delle seconde traslandone così, in violazione del principio della “comunione di scopo” (anche passiva) di cui all’art. 2247 cod. civ., i relativi effetti sulla restante compagine sociale. Di conseguenza, il socio schermato dalle perdite, sicuro dal lato suo di non poterne subire gli effetti pregiudizievoli, risulterà maggiormente propenso ad una gestione societaria tendente allo “azzardo morale”, mentre il socio escluso dagli utili si troverà ad operare in maniera “disinteressata”, certo ab origine di non poter ricevere beneficio alcuno a prescindere dal suo operare. Tali circostanze, si rammenta a diretto danno dell’ente società e dei soggetti che con essa approcciano.

Sulla questione, variegate pronunce di merito, chi per un verso chi per un altro, sulla scia di un recente precedente di legittimità (54), hanno provveduto a rimarcare gli elementi costitutivi e l’ambito applicativo del divieto (55), sia in ambito statutario che (particolarmente) parasociale (56), al fine ultimo di poter tracciare il discrimen tra operazioni di “corporate finance” lecite ed illecite.

Orbene, premessa la natura dell’art. 2265, cod. civ. (57) quale norma di «ordine pubblico economico, causalmente espressiva della regola generale dell’art. 2247, cod. civ.», ovverosia, la sua riconducibilità alla più intima struttura genetica del contratto di società (58), considerata la conseguente estensione di tale divieto a tutti i tipi societari (59) – prendendo parte i soci capitalistici, benché in via indiretta, anche in questi tipi, alla gestione dell’impresa mediante esercizio delle rispettive prerogative sociali ed essendo, in ultima analisi, responsabili pro quota del suo andamento –, si richiede, in buona sostanza, ai fini della violazione del divieto, un’esclusione del socio dalla partecipazione agli utili o alle perdite «totale e costante» (60) giudicata in senso «sostanziale e non formale» (61).

Per esclusione “totale e costante” dalle perdite o dagli utili si dovrà dunque intendere, pendente status socii, una limitazione, temporale (parasociale) o di soglia (statutaria), assoluta (“totale”), caratterizzata altresì dall’assenza (sull’effetto “escludente”) di termini e condizioni (“costante”) all’esercizio del diritto potestativo al trasferimento di natura parasociale ovvero al regolamento statutario della categoria privilegiata di S.p.A. e S.a.p.az. o al “particolare diritto” di S.r.l. (62) interessate poiché, essi soli, secondo alcuno orientamento (63) (riferito, si badi bene, ai patti extra statutari, ma estensibile, quanto a principio, anche alle norme statutarie) sarebbero potenzialmente idonei, limitando la portata del diritto e con esso l’esclusione assoluta e perdurante dalla partecipazione alle perdite o agli utili, a far scaturire la liceità del patto o della previsione statutaria, ritornando, il socio opzionario, scaduta infruttuosamente l’opzione parasociale ovvero (estendendo il ragionamento allo statuto) superata la soglia di postergazione nelle perdite o di priorità sulla distribuzione di utili del titolo azionario o del “diritto particolare”, nello status socii delineato, in via implicita, dall’art. 2247, cod. civ..

Di contro, la locuzione “sostanziale”, riferita, come logico, quasi esclusivamente all’ambito parasociale – ben dovendosi il divieto leonino estendere anche a tali ultimi, atteso e il legame genetico del contratto allo statuto e l’incidenza dei suoi effetti sul medesimo (64) – dovrà dunque orientare l’indagine del giudicante, sulla ricerca di eventuali interessi meritevoli di tutela ex art. 1322, comma 2, cod. civ.. O meglio, il contratto, poiché extra statutario, benché formalmente leonino (65), potrà sostanzialmente risultare lecito (quanto a causa), controbilanciando appunto la presunta lesione dei diritti sociali con ulteriori effetti portatori di pari benefici (“causa concreta”) verso la compagine (presuntivamente) lesa (66) – esemplificando, una complessa e articolata operazione di risanamento aziendale nella quale il patto parasociale considerato ex se leonino null’altro sarebbe, in ultima istanza, che un singolo ingranaggio di una più complessa operazione di risollevamento dell’impresa, realizzato, si rammenta, con capitale ottenuto a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle del credito bancario.

In buona sostanza, si avrà un conferimento in conto capitale di rischio da parte di un socio, ottenuto in seguito alla cessione di parte della propria partecipazione ad un terzo “finanziatore”, la cui stessa, esaurita la propria funzione all’interno dell’operazione finanziaria, verrà ritrasferita, mediante l’esercizio di un diritto potestativo di vendita, all’originario socio, già cedente finanziato. Dunque ad essere vincolato dal patto sarà il socio, non la società.

Tali statuizioni rivelano così la propria ragion d’essere dall’affermarsi nella prassi operativa italiana di tecniche di ricorso a forme di finanziamento “alternative” (67), operate da enti di diritto privato quali società finanziarie regionali o private, istituti di credito e, più di recente, operatori italiani ed esteri di “private equity”.

Ebbene, siffatte operazioni societarie si sostanzierebbero, per larga parte, nella stipulazione di specifiche e collegate clausole statutarie ed extra sociali (68) contenenti, le seconde, vincoli di cessione di partecipazioni (in favore di enti finanziatori) aventi corrispettivo orientato (dal socio finanziato) all’esecuzione di specifici programmi d’impresa (avvio, sviluppo o cambiamento (69)), alla cui realizzazione risulta collegato l’esercizio di specifiche clausole “premiali” e “penali”. Le prime, operanti a favore dei finanziati, a seguito di buona riuscita dell’operazione, consentiranno ai predetti di esercitare l’opzione di (ri)acquisto a prezzo (pre)concordato (70) beneficiando così del raggiunto utile d’esercizio, di contro, le seconde, operanti in ipotesi di mancato raggiungimento dell’obiettivo di impresa concordato, consentiranno ai finanziatori l’uscita dall’investimento esercitando l’opzione di (ri)vendita a prezzo (pre)concordato (71).

Il valore della partecipazione (rectius del “finanziamento partecipativo”) viene spesso preservato con ulteriori fideiussioni in favore del finanziante, pegni su partecipazioni e, nella prassi del tipo S.p.A., altresì con l’emissione (da qui le clausole statutarie collegate) in favore del socio finanziatore di azioni (72) privilegiate (73) – con postergazione nelle perdite oltre che (non di rado) con priorità nella distribuzione degli utili (da detrarre però dal prezzo di (ri)cessione) e prelazione nel rimborso del capitale in caso di scioglimento – tale per cui, la predetta, subendo l’incidenza delle passività solo previo annullamento integrale delle azioni ordinarie, manterrà (presumibilmente) inalterata la propria consistenza patrimoniale sino al momento dell’esercizio dell’opzione di smobilizzo contenuta nel collegato accordo extra statutario. Come osservato, dunque, il socio finanziato, in ultima analisi, utilizzerà il proprio patrimonio personale sia al momento del conferimento (e delle successive vicende societarie) che al momento della retrocessione.

Di guisa che tali opzioni contrattuali di (ri)acquisto e/o (ri)vendita null’altro sarebbero che l’adempimento, da parte del socio finanziato, dell’originario contratto atipico di “finanziamento partecipativo” (74) “concesso” in precedenza dal cessionario investitore (istituto di credito, società finanziaria o associazione d’industriali nonché fondo d’investimento) sottoforma di corrispettivo per l’acquisto della partecipazione in seguito sottoposta ad opzione di vendita e/o di acquisto (criterio della “causa concreta” o “sostanza economica dell’operazione”).

Alcuna dottrina e giurisprudenza (75) ha in maniera ancora più netta circoscritto l’operatività del patto leonino ai soli accordi statutari sull’assunto che, l’opzione tipo “put” o tipo “call”, in realtà, attesa la sua funzione “restitutoria” del tantundem corrisposto a titolo di “finanziamento partecipativo”, non provocherebbe una, per così dire, dispersione relativa del rischio d’impresa (i.e. non partecipazione del socio oblato alle perdite), ma, semmai, traslerebbe il suddetto rischio in capo ai soci uti singuli finanziati i quali (volontariamente) ripagherebbero il beneficio percepito (anche dalla società) con il finanziamento.

Ragionevolmente, tale interpretazione, parrebbe plausibile nella sua architettura ove accompagnata anche da ragionevoli criteri di meritevolezza ex art 1322, comma 2, cod. civ. riferiti appunto al sopra esplicitato principio della “sostanza dell’operazione economica” e rivolti a beneficio e dell’intera compagine sociale e dei creditori sociali (76), atteso, d’altra parte, l’ineludibile collegamento negoziale (77) intercorrente tra statuto e patto extra statutario.

Sull’argomento in dottrina si sono avanzate, già in epoca antecedente alla riforma del diritto societario, diverse teorie, volte, le une e le altre, a tentare di colmare tale “criticità di sistema”.

Un’isolata e risalente corrente sviluppatasi nell’ultimo decennio del secolo scorso (78), in materia di clausole statutarie leonine, distinguendo l’esclusione dagli utili (comportante “nullità per mancanza di causa”) da quella dalle sole perdite (causante “nullità per illiceità della causa”), considerando pertanto quale campo di analisi controverso la sola fattispecie dell’esclusione dalle perdite, considerava quale possibile indice di liceità la presenza di una «causa mista associativa e di finanziamento, avulsa (per tali ragioni, n.d.r.) da qualsivoglia prevaricazione usuraria» (79) e dunque in linea con il divieto di cui all’art. 2265, cod. civ..

Di contro, è stato in seguito rimarcato (80) il rigore “unitario” della ratio del divieto rappresentando gli utili e le perdite, unitamente al conferimento, fenomeni di un’unica fattispecie di diritto, tutelati da medesime ragioni di “sana e corretta gestione dell’ente collettivo”. Più precisamente, secondo tale corrente, il conferire al socio il diritto di esclusione dalle perdite favorirebbe, a danno della collettività sociale, oltre che un palese conflitto di interessi, tipiche condotte improntate da “azzardo morale”, rese possibili dalla rimozione del vincolo tra potere gestorio e rischio d’impresa – parallelo discorso, si aggiunge, quanto ad effetto, per l’esclusione dalla distribuzione di utile, la quale, essa sola, ingenererebbe nel socio condotte partecipative “disinteressate”.

Altra corrente, sviluppatasi anch’essa nel corso degli anni ‘90, (81) ha ritrovato nell’eventuale “nullità per difetto di causa” del patto la sua possibile conversione ex art. 1424, cod. civ., in «patto con causa di credito».

Si è contestata a riguardo (82) l’assenza di punti di contatto funzionale (onde permetterne la conversione ex lege) tra la fattispecie giuridica della “convenzione di smobilizzo” ed il mutuo, confluendo solo nella prima, in quanto negozio atipico di finanziamento, una “causa mista societaria e di credito”; cosa, per ovvie ragioni, non presente nel mutuo. Si è rilevato (83) altresì, all’interno del presente pensiero, l’ulteriore effetto negativo dato della sottrazione del socio finanziatore convertito in creditore (mutuante) dalla regola di postergazione in sede di liquidazione dell’attivo della società avente contratto sociale nullo.

A seguito di ciò, si è così paventata (84) l’ipotesi di “patto di retrocessione” quale “dissimulato di contratto di società”. Anche tale corrente non è stata foriera di critiche (85), atteso che le parti intendono perseguire proprio gli effetti del negozio simulato, ovverosia la causa traslativa del bene (partecipazione); escludendosi altresì forme di interposizione, posto che il finanziatore, entro il termine, eserciterà il diritto di opzione in qualità di socio piuttosto che di soggetto interposto.

Altra dottrina (86), in pari epoca, ha propeso per una validità del patto supportata da caratteri di “aleatorietà” del contratto, tali per cui, alla stipula, entrambi i contraenti si troverebbero in posizione egualitaria, posta l’impossibilità di stabilire quale delle due trarrà beneficio in concreto dall’operazione.

Anche in questa sede si è ribattuto (87) rilevando come l’operatività inderogabile della norma del patto leonino s’infranga anche su fattispecie potenzialmente lesive e rivelanti anche solo ex post, nella sostanza degli effetti finali, profili leonini, dovendosi dunque riporre tutela sulla posizione del socio piuttosto che sul tipo di strumento giuridico adoperato.

Si è altresì argomentato (88) verso una legittimità dei patti sulla scorta della privazione del diritto di voto del finanziatore in forza, per le sole società non quotate, dell’applicazione analogica dell’art. 1550, comma secondo, cod. civ., attesa la preclusione di emissione di azioni di risparmio in assenza dei presupposti di legge.

Benché ritenuta (89) non ipoteticamente plausibile posta l’assenza dei presupposti per un’estensione analogica della disciplina («carattere non eccezionale della norma» e sussistenza della «eadem ratio»), nella prassi difficilmente si troverà concreta adesione da parte di un finanziatore svuotato di poteri e onerato di costi sul piano civilistico e fiscale direttamente riconducibili all’investimento effettuato.

Alcuno orientamento contemporaneo (90) ha poi ritenuto plausibile un “patto di smobilizzo” posto in essere da socio dotato di particolari prerogative convenzionali di voto (ex art. 2468, co. 3, cod. civ. per il tipo S.r.l.) o di particolari titoli azionari (ex art. 2348, cod. civ. per i tipi S.p.A. e, di rinvio, S.a.p.az.) che gli consentano, attesa la sua posizione di minoranza, un diritto di “voice” (91) in determinati contesti a fini di “controllo” del solo investimento; esemplificando, “atti di ispezione”, “conferimento di autorizzazioni” ed “espressione di pareri vincolanti”.

Secondo differente pensiero (92) risalente a metà anni ‘90, sulla scorta della prassi statunitense ed olandese dei “subordinated loans”, sarebbe tuttavia plausibile, ove il finanziatore intenda valutare preventivamente il proprio ingresso nel capitale sociale, optare per un prestito obbligazionario convertibile benché fatto oggetto anch’esso di critiche posta l’impossibilità dell’esercizio del potere di (ri)cessione da parte del socio finanziato atteso che l’esercizio del diritto di conversione risiede in capo a tale ultimo.

Alcuna recente giurisprudenza (93) ha ritenuto quale valido elemento riequilibratore dell’esonero dalla partecipazione alle perdite da parte del socio opzionario, escludendo dunque la leoninità del patto di opzione, la concessione al finanziato di un’opzione di acquisto tipo “call” riferita alla partecipazione detenuta dal soggetto finanziatore. Tale strumento onde assicurare, ove ultimata con successo l’operazione societaria strutturata, ex ante e a prezzo prestabilito (o predeterminabile), il diritto, in capo agli originari cedenti, di riottenere la partecipazione anzitempo ceduta (94).

In ultima istanza, come già osservato (95) decenni orsono, parrebbe possibile assicurasi da ogni rischio di violazione del divieto inserendo nell’accordo specifiche clausole correttive del prezzo in grado di regolare la cessione al valore di mercato ridistribuendo il rischio anche sul finanziatore, il quale avrebbe comunque già beneficiato di azioni privilegiate o di “particolari diritti” pendente rapporto sociale.

Diversamente, ove presente un’esclusione “totale e costante” dalla partecipazione alle perdite accompagnata altresì da una “causa contrattuale” (concreta) non apportatrice di beneficio alcuno alla compagine sociale e dunque elusiva della norma di legge di cui all’art. 2265, cod. civ. si avrà sicuramente violazione del divieto di patto leonino.

Passando all’analisi delle ricadute sul piano del rapporto sociale, degno di nota è l’acceso dibattito dottrinale delineatosi sul finire del secolo scorso che ha visto il contrapporsi di tesi volte ad individuare le conseguenze giuridiche di una previsione leonina all’interno dello statuto; ipotesi, tale ultima, considerato lo stato attuale della tecnica, inverosimile nella moderna pratica degli affari.

Secondo una prima dottrina (96), la presenza di una siffatta clausola all’interno dello statuto, superata la previgente tesi ante codice (97) che ne riconduceva la nullità dell’intero contratto sociale, provocherebbe la nullità del solo singolo vincolo (98) (parte del contratto plurilaterale a comunione di scopo) tra socio “leone” e soci, in quanto venuto meno l’elemento contrattuale (essenziale) avente ad oggetto il criterio di ripartizione degli utili e delle perdite di cui agli artt. 2247 e 2263 o 2348 o 2468, cod. civ..

A seguito di tale considerazione, secondo alcuni (99), nel caso di società di persone, lo scioglimento per nullità del singolo vincolo sociale, considerata l’efficacia invalidante ex tunc, essendo tale (trascorso) legame assimilabile de facto ad una “comunione semplice incidentale”, garantirebbe comunque al socio la restituzione del conferimento al netto degli utili e delle perdite di esercizio in proporzione al valore della quota, mentre, nel caso di società di capitali, dovendosi tale fenomeno equipararsi ad una ipotesi di “recesso ex lege”, la liquidazione sarà, anche in tale caso, effettuata al valore della partecipazione al momento in cui viene accertata la nullità.

Di contro, secondo altra parallela corrente (100), premessa la (eventuale) nullità del singolo vincolo (socio leone e soci) ai sensi dell’art. 1419, comma primo, cod. civ., dovrà intendersi – si badi bene, solo per i tipi personalistici ai sensi degli artt. 2332, 2454, 2463, co. 3, cod. civ. (101) – nullità dell’intero contratto di società ove configuratasi l’ipotesi prevista dall’art. 1420 cod. civ. – partecipazione del socio leone ritenuta dalle parti essenziale – ovvero in presenza di una compagine sociale formata da due soli soci (di cui uno leone).

Vi è stato inoltre chi (102) ha propeso per la sostituzione di diritto della clausola affetta da nullità ai sensi dell’art. 1419, secondo comma, cod. civ. con applicazione, alla disciplina contrattuale relativa al singolo socio (ex leo), dell’art. 2263, cod. civ..

Tale pensiero, è stato oggetto di critica da parte di autorevole corrente (103) ribadente il carattere meramente suppletivo e non imperativo della norma citata, benché, per alcune ipotesi, secondo altra impostazione (104), risulterebbe ragionevole l’operare di diritto ed in maniera estensiva, in vece del comma primo art. 1419, cod. civ., del comma secondo medesima norma attesa la necessaria tutela del precetto alla cui base è collegata la sanzione di nullità – si assiste in tal senso ad una «limitazione in chiave teleologica della regola fondamentale sul rispetto dell’autonomia privata» con «conservazione coattiva del contratto» e sostituzione ope legis della clausola nulla, a prescindere dall’interesse delle parti, giustificata da ragioni di “ordine pubblico economico” (esemplificando, la dichiarazione di nullità del patto provocherebbe esso stesso, attesi gli effetti restitutori, la violazione del divieto del patto leonino in quanto il socio si vedrebbe restituito il conferimento privato dagli utili di esercizio e schermato dalle perdite).

Di guisa che, accertata e dichiarata la nullità del patto leonino, il contratto sopravviverà integrandosi ex art. 1419, co. 2, cod. civ., con le specifiche norme imperative sussidiarie, precisamente, l’art. 2265, cod. civ..

Tale ricostruzione a prescindere che la pattuizione leonina sia contenuta nello statuto piuttosto che in un patto parasociale atteso il collegamento negoziale tra i contratti e la capacità di promanazione degli effetti, propri della nullità (105), tra negozi collegati.

Conclusioni

Tirando le fila del succinto lavoro di ricerca, è possibile rilevare come se da un lato la duttilità di una siffatta figura giuridica “neutra” consenta una sua confacente applicazione in plurimi e differenti terreni del diritto italiano, tra cui, seppur con criticità operative di non poco conto provocate dall’assenza di raccordo normativo tra norme di diritto comune e norme di diritto societario, il campo della prassi societaria, dall’altro è indubbio come tale sua operatività sia stata dal legislatore pensata, disegnata e legata a doppio filo su modelli contrattuali, tipizzati o tipizzabili, aventi ragioni tipicamente commerciali e causa prettamente commutativa. Effetto, questo, di un contesto storico, suo incubatore, avente bagaglio genetico difforme dai modelli di origine estera a causa prettamente “speculativo finanziaria” diffusisi da qualche decennio anche nel nostro ordinamento.

Ne risulta in ultima analisi come il combinato letterale racchiuso all’interno dell’art. 1331, cod. civ. nient’altro sarebbe che la cristallizzazione di un’esigenza manifestata a gran voce da una prassi degli affari frutto di un’epoca meno “contaminata”, già chiamata oramai a cedere terreno, affiancandosene, a nuove e più sofisticate tecniche contrattuali quali appunto la figura atipica della “partecipazione a scopo di finanziamento” del socio “temporaneo”, portavoce, essa stessa, di un già affermato dinamico panorama giuridico a vocazione tipicamente internazionale.

Si ritiene pertanto necessario un intervento normativo volto a eliminare le suddette criticità di sistema creando specifici confini “tipizzati” entro i quali poter usufruire dell’opzione anche in chiave di “finanziamento partecipativo” all’impresa.

Sino allora l’operatore sarà chiamato a “proteggersi” dalle potenziali violazioni di legge ricorrendo all’utilizzo di specifiche clausole negoziali volte a preservare le posizioni di diritto inderogabili dei soci, quali, come esposto, il diritto alla partecipazione agli utili e alle perdite di esercizio.

 

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Note dell'articolo:

Riferimenti bibliografici:

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