A cura di F. De Luise e S. Salzano (partecipanti in area Legale)

La rinnovata visione eminentemente collettiva e necessariamente dinamica del fenomeno societario, unitamente alla speculare opportunità di garantire la plasmabilità delle pertinenti regole di funzionamento alla mutevole realtà economica ed alle nuove e concrete esigenze dei soci, ha indotto il riformatore del 2003 a riconoscere ai paciscenti un’ampia facoltà di variazione di quell’assetto societario da loro originariamente concordato “per l’esercizio in comune di un’attività economica” e liberamente accettato quale condizione costitutiva e, contemporaneamente, limite necessario dei diritti loro attribuiti proprio in forza dell’acquisita qualità di socio.

Tra aneliti di efficienza dell’impresa e bramosia dei consociati di conservazione dei diritti connessi alla posizione giuridica rivestita, ulteriori e diversi da quelli particolari e nominativi di cui all’art. 2468 3° co. c.c., il primario obiettivo del legislatore era quello di garantire la massima funzionalità dei processi decisionali.

Pertanto, nel reticolato normativo di cui agli artt. 2479 e ss. c.c., ha riservato alla competenza dell’assemblea dei soci, la decisione di introdurre modifiche statutarie idonee ad incidere sui predetti diritti, sulla circolazione delle partecipazioni e sulla loro valorizzazione, con previsione di un quorum deliberativo coincidente con quello costitutivo e pari alla metà del capitale sociale.

In quest’ottica di allontanamento dall’anonimo modello tradizionale per azioni e di democratica regolazione delle dialettica endosocietaria, pur riconoscendosi ampia derogabilità a tali disposizioni, con conseguente possibile abbassamento o innalzamento del relativo quorum - sino a giungere addirittura ad una eccezionale pretesa di unanimità - la regola dispositiva prescelta resta quella maggioritaria, in nome della predetta flessibilità del modello legale.

Onde evitare però che tale meccanismo decisionale possa costituire un disincentivo all’investimento ed, al contempo, una “camicia di forza” che possa imbrigliare la libertà di autodeterminazione del socio che non condivida più la politica societaria condotta e che non abbia più interesse a sostenerla, è prevista un’uscita di emergenza ad immediata percorribilità, strutturata in modo da preservare il valore della partecipazione originariamente effettuata e diretta a smobilizzare l’investimento: il diritto di recesso ex art. 2473 c.c.  Ed è proprio il rischio di un suo esercizio, in termini di futuri costi per la s.r.l., ad imporre ai soci di maggioranza più consapevolezza nella scelta di modificare l’assetto societario ed un’adeguata ponderazione dei possibili benefici conseguenti.

Sovente, nell’ultimo decennio, l’opportunità di garantire migliori condizioni di realizzazione dell’investimento, quand’anche sorretta da un fine speculativo, è prevalsa sull’interesse alla diretta esecuzione del progetto imprenditoriale; ciò, unitamente all’ampia apertura “post 2003” del modello organizzativo delle s.r.l. (veicolo societario prescelto dalla prassi nell’ambito delle operazioni di M&A), ha favorito il massivo inserimento, direttamente negli statuti delle società di capitali, delle clausole di matrice anglosassone di tag/drag/(bring)-along, sin d’ora confinate all’interno di patti parasociali ad efficacia meramente obbligatoria, così da garantire al partner finanziario, della società target come della newco, in questo moderno e rinnovato scenario, un congruo rientro di quanto investito.

Secondo parte della dottrina le ragioni di tale cambiamento di rotta sarebbero da rinvenire nell’introduzione di un fattore di instabilità all’interno della disciplina di tali patti ovvero nella previsione, contenuta nell’2341-bis c.c., di un limite massimo di durata di cinque anni.

Non manca però chi, proprio valorizzando la natura dei soggetti coinvolti e la ragione dell’investimento, ritiene che, al fine di preservare la validità di pattuizioni di durata eccedente il limite legale, sia comunque percorribile la strada del giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., risolvendo così, d’emblée, anche il problema di compatibilità con i principi in materia di pactum de non alienando.

Più verosimilmente però l’ago della bilancia è rappresentato dal diverso e più incisivo grado di tutela che l’inserimento di tali clausole nella carta statutaria offre, costituito dalla loro efficacia reale e dalla loro opponibilità erga omnes, stante la valenza dichiarativa della pubblicità nel registro delle imprese.

Pertanto, nell’attuale panorama societario, non è inusuale rinvenire all’interno degli statuti di s.r.l. clausole di drag/tag(bring)-along.

La manifesta assonanza fra le tre figure e l’identità del presupposto applicativo non devono però indurre in errore: tali clausole, come  a breve si dirà, non sono in alcun modo equiparabili né per struttura, né per funzione e tantomeno per le modalità di inserimento all’interno dello statuto sociale.  

Invero la clausola tag-along o di co-vendita è generalmente posta a tutela dei soci di minoranza e prevede l’obbligo per il socio di maggioranza, che intenda cedere il proprio pacchetto azionario ad un terzo acquirente, di adoperarsi affinché quest’ultimo formuli, garantendo le medesime condizioni contrattuali, un’offerta di acquisto “maggiorata” ovvero comprensiva, oltre che della partecipazione rilevante, anche delle quote residue della società.

A fronte quindi di un’offerta irrevocabile di acquisto proveniente dall’ investitore, il socio di minoranza può liberamente scegliere di rifiutare l’offerta, ancorché vantaggiosa, oppure di co-vendere alle medesime condizioni economiche offerte al socio di maggioranza, potendosi in tal modo avvantaggiare della forza contrattuale di cui quest’ultimo gode sul mercato, anche in termini di determinazione del prezzo unitario di cessione, eventualmente comprensivo di un premio di maggioranza.

In altre parole, mentre il socio di minoranza “taggato” è titolare di un diritto di vendita, per contro, il socio di maggioranza e, indirettamente, il terzo, sono gravati da un vero e proprio obbligo; di talché, il socio di maggioranza, in caso di rifiuto da parte dell’investitore di acquisire l’intero pacchetto azionario, dovrà astenersi dal vendere o dal trasferire all’acquirente le proprie azioni, benché appetibili. Qualora poi quest’ultimo, proceda comunque al loro acquisto frazionato, in spregio alla clausola di co-vendita, non potrà qualificarsi legittimamente come “socio”.

Ma, se è vero che proprio sulla scorta di tali rilievi la dottrina maggioritaria propende per un’allocazione della clausola in parola tra quelle limitative della circolazione delle azioni, non può che osservarsi come il limite eventualmente imposto dal tag-along appaia relativo, configurandosi più come un “aggravio procedimentale” operante nella fase di pre-vendita e comportante un alea economica maggiore in caso di rifiuto di alienare da parte del “sodale minore”, che come un vero e proprio vincolo. Infatti, in tale ultima eventualità, il socio di maggioranza sarà pur sempre libero di vendere la sola quota posseduta, sempre che ovviamente il terzo accetti la proposta.

Risultano pertanto superflui ed in conferenti, in caso di s.p.a., i richiami all’art. 2355-bis c.c.: infatti la clausola tag-along non è in alcun modo diretta a rendere i soci prigionieri della società e non determina mai effetti equipollenti o quanto meno equiparabili al divieto di alienazione, tali da giustificare la soggezione ad una limitazione temporale.

Ancor più nulla quaestio in merito al trasferimento di partecipazioni di s.r.l. regolato dall’art. 2469 c.c.: esso infatti, quand’anche statutariamente disciplinato, non è soggetto a limitazione di sorta.    

Il precipitato della minore invasività della clausola in questione è rappresentato dalla sua introducibilità nello statuto a sola maggioranza, salvo il diritto di recesso del socio dissenziente ex art. 2437, 2° comma lett. b, c.c.

Più complessa è l’analisi della clausola drag-along con la quale viene disciplinato il diritto del socio di maggioranza “di trascinare” nella negoziazione ed alle medesime condizioni di vendita, anche la partecipazione del socio di minoranza: quest’ultimo avrà così il diritto di prender parte alla trattativa con il terzo acquirente nonché la chance a che venga attribuito alla propria partecipazione un valore maggiore, ma graverà su di lui anche l’obbligo di cooperare ed assumere ogni iniziativa utile al perfezionamento della cessione al terzo. Parimenti, il socio di maggioranza potrà così tutelare il suo interesse alla liquidazione dell’investimento, assicurandosi altresì un extra premio da vendita totalitaria.

Un operazione di tal fatta si presta nel suo complesso a proteggere anche l’interesse sociale a contenere l’ostruzionismo della minoranza ed a garantire l’omogeneità della compagine e il buon funzionamento del sistema di governance adottato.

Ne costituisce una variante la clausola bring–along che, sotto il profilo strutturale, si atteggia come un opzione di vendita a favore del terzo acquirente che abbia già presentato un’offerta di acquisto totalitaria ed in cui il socio di minoranza riveste il ruolo di promittente e quello di maggioranza di stipulante.

Quindi, a segnare il profondo discrimen esistente tra la clausola di trascinamento e il patto di co-vendita è proprio il carattere bifrontale della posizione assunta dal socio di minoranza.

In tale seconda ipotesi infatti, pervenuta l’offerta di acquisto da parte del terzo, il diritto del socio di minoranza ad essere trascinato si trasforma in un obbligo ad essere venduto, alle condizioni già pattuite, e senza possibilità di opposizione. Egli verterà in un vero e proprio stato di soggezione rispetto all’altrui decisione di dismettere il pacchetto azionario e conseguentemente di cessare il rapporto sociale.  

Pertanto, qualora in gioco vi siano azioni di una s.p.a, tale ultima considerazione impedisce la riconduzione immediata di tale pattuizione nell’alveo dell’art. 2355-bis c.c.: invero la clausole in esame non implica una mera limitazione al regime circolatorio delle azioni, la cui ratio è quella di favorire la permanenza del socio nella società, ma, anzi, al contrario, si atteggia come congegno di vera e propria vendita forzosa ad innesco unilaterale, diretto a privare i soci di minoranza del loro potere dispositivo e specularmente volto ad attribuire al socio “trascinatore” un diritto soggettivo nuovo ed ulteriore rispetto all’organizzazione sociale, in grado di condizionare l’esito della contrattazione e di indirizzarlo verso l’exit dell’intera compagine sociale.

E tale considerazione, seppur nella diversità della disciplina, vale mutatis mutandis, anche per le s.r.l.

Si ritiene poi non condivisibile l’assimilazione, che pure è stata avanzata, tra la clausola in parola e le azioni riscattabili, compiuta sulla scorta di una possibile omogeneità nello stato di soggezione patito dal socio di minoranza ad un potere altrui.

È evidente infatti che trattasi di ipotesi distinte: in primis perché le azioni riscattabili costituiscono categoria speciale ex art. 2348 c.c.; in secondo luogo il diritto di riscatto è operato in favore di altri soci e non di un terzo, essendo rimesso il suo esercizio all’arbitrio solo e soltanto dell’azionista.

Eppure, tale improprio parallelismo ha condotto ad un’ulteriore conclusione ovvero che la soggezione al drag-along, per essere valida ed efficace, debba avere come necessario contrappeso l’equa valorizzazione della partecipazione indirettamente espropriata. Se n’è concluso che il corrispettivo non potrà mai essere inferiore al valore di realizzo in sede di recesso, a fronte dei criteri di determinazione del prezzo espressamente previsti dall’art. 2437-ter 2° e 3° comma c.c., per le s.p.a., richiamati dall’art. 2437-sexies per il riscatto azionario, e dall’art. 2473 c.c. per le s.r.l., non potendo ex adverso costituire una valida alternativa, in termini di tutela del socio di minoranza, la previsione di un diritto di prelazione, il cui esercizio finirebbe comunque per dipendere da variabili contingenti di natura finanziaria.

In assenza di una norma imperativa esplicita che vieti o renda ex ante illegittima una clausola di trascinamento che non contenga un correttivo di tal fatta, non si registra univocità di vedute.

C’è infatti chi ritiene che, pur realizzandosi il medesimo effetto espropriativo anche nell’ipotesi convenzionali di esclusione del socio ai sensi dell’art. 2473-bis c.c., il richiamo alla disciplina del recesso sia dettato dalla mancanza di un parametro economico di riferimento per la determinazione del prezzo di acquisto delle quote del socio escluso, esistente invece nel caso di trascinamento e rappresentato dal prezzo formatosi in condizioni di libero mercato. Senza considerare poi che il socio trascinato oltre ad usufruire delle condizioni economiche indubbiamente più vantaggiose riservate al socio di maggioranza, può vedersi attribuito anche un premio di maggioranza.

Era invece opinione condivisa che, proprio in ragione della forte incisione sui diritti individuali dei soci, in primis quello relativo alla qualificazione stessa dello status di socio, derivante dall’operatività di tale congegno, la sua introduzione non potesse che avvenire, con il consenso del socio “forzabile”, id est all’unanimità, altrimenti rimettendosi nelle mani di un élite sociale il potere di alterare radicalmente la struttura societaria.

Ed in caso di s.r.l. a ristretta base partecipativa ed a forte carattere personalistico, tale metodo deliberativo appariva coerente con la previsione dettata per le società semplici  di cui all’art. 2252 c.c., fermo comunque il suo espresso riconoscimento già nell’art. 2468, 4° co. c.c.

Va però detto che tale ultimo orientamento, benché consolidato, ha subito, da ultimo, una rivisitazione attraverso una diversa lettura della clausola in parola: essa infatti non sarebbe più concepita come previsione diretta a danneggiare la minoranza quanto piuttosto come pattuizione potenzialmente idonea ad apportare un plus all’asset societario a beneficio dell’intera compagine, perché finalizzata a realizzare le migliori condizioni di disinvestimento di tutte le partecipazioni.

La regola della maggioranza rappresenterebbe quindi la migliore soluzione adottabile.

Affinché però possa qualificarsi come tale si ritiene indispensabile che ricorrano tre condizioni ovvero:

  1. che sia prevista la cessione contestuale di tutte le azioni;
  2. che il socio sia liquidato con una somma non inferiore a quella determinata ex art. 2437-ter c.c;
  3. ed infine, che sia garantita la par condicio tra i soci.

In tale rinnovata versione essa si limiterebbe a prevedere una particolare modalità di liquidazione della partecipazione di tutti i soci, per di più all’esito dell’esercizio di un diritto tipico già codificato: quello di deliberare a maggioranza lo scioglimento anticipato della società, cioè il disinvestimento collettivo.

Conclusivamente, sia consentita una riflessione: in questa ricerca sfrenata, nota solo ai sistemi di Civili Law, di una collocazione dogmatica dei fatti, animata da un inappagabile desiderio di sussumerli ed interpretarli, in nome di una imprescindibile, inviolabile ed indubitabile coerenza del Diritto, innanzi alla necessità di fornire soluzioni adeguate alle mutate esigenze degli operatori economici, soccorre sì, ante tempus, la lex mercatoria, ma aiuta indubbiamente ancor più l’elasticità dello “scheletro” societario, che non inficia la funzionalità dell’organismo che lo governa, anzi, la potenzia, preservando al contempo l’identità e la duplice personalità, capitalistica e personalistica, che lo anima e connota, consentendone la migliore esistenza possibile in un mercato globale in continua evoluzione.

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Bibliografia

  • Consiglio Notariato del Triveneto, Limiti di validità delle clausole statutarie che obbligano determinati soci a cedere le proprie azioni nel caso in cui altri soci decidano di alienare le loro, in Massima H.I.19., 9/17.
  • Lorenzo Botti, Clausola di “covendita forzata” e “drag-along” in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, 2016, pag. 905.
  • Luca De Matteis, La clausola di trascinamento nello statuto di una società a responsabilità limitata e criteri redazionali in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, 1 agosto 2017, pag. 639.
  • Commissione Studi societari del Consiglio notarile di Milano, Clausole statutarie disciplinanti il diritto e l’obbligo di “covendita” delle partecipazioni (art. 2355-bis e 2469 c.c.), in Massima n.88, 2005.  
  • Paolo Divizia, Clausole di tag-along e drag-along e modalità di introduzione nello statuto, in Notariato, 2011, p. 395 e ss.
  • Tribunale di Milano, sez. III Civile, 24 marzo 2011.

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