Stando a quello che si legge quotidianamente sulla stampa nazionale, la situazione occupazionale in Italia è estremamente critica, come non succedeva dal 1980 ad oggi. Il tasso di disoccupazione, che in tutta la Comunità Europea tocca cifre impressionanti, nel nostro Paese è addirittura preoccupante e le previsione degli esperti per il 2013 non sono affatto rosee. Un giovane su tre dai 16 ai 25 anni è disoccupato, cresce la percentuale di neet (che è l'acronimo inglese dell'espressione "Not in Education, Employment or Training") ed il numero dei sfiduciati che non vogliono nemmeno più formarsi e cercare lavoro.

Eppure, nonostante tutto, dalle imprese italiane iniziano ad arrivare segnali di incoraggiamento che ci inducono a sperare in un seppur minimo aumento del livello di occupazione. Autorevoli ricerche dell'Istat ci riportano, infatti, una realtà ben diversa da quella dipinta dalla stampa: in Italia il lavoro ci sarebbe ma a mancare sarebbero candidati con competenze specifiche richieste dalle imprese. Inoltre è alta la richiesta di figure professionali e consulenziali, soprattutto laureate, che sappiano gestire determinate aree di business (finanza, controllo di gestione, amministrazione, buste paga, internazionalizzazione, ecc.) all’interno delle piccole e medie imprese, che non dimentichiamo costituiscono oltre il 95% del tessuto economico italiano.

Di chi è la colpa? Del sistema accademico italiano che è inadeguato? In parte sì. Sembra proprio che colpevole di questo gap, fra le figure professionali richieste dalle aziende e le competenze effettivamente possedute dai candidati, sia proprio il sistema accademico che, secondo il mondo imprenditoriale, non prepara sufficientemente bene i giovani (soprattutto i neolaureati) ad affrontare con adeguata competenza ‘pratica’ il mondo del lavoro.

L'attuale percorso formativo di un giovane prevede cinque anni di elementari e tre anni di medie comuni a tutti e poi la scelta del liceo - cinque anni per tutti - che realizza una prima scrematura fra chi sarà, poi, intenzionato a proseguire gli studi con l'università. Se sulla carta questo sistema sembra essere ottimale per fornire ai giovani una preparazione sufficiente ed adeguata, la realtà poi si presenta ben diversa perchè sia gli istituti professionali che i successivi percorsi universitari risultano essere inadeguati in quanto troppo incentrati sul sapere piuttosto che sul saper fare.

E' proprio in questo che si evidenzia la carenza del sistema scolastico italiano. A differenza degli altri Paesi in cui la formazione teorica è da subito accompagnata da quella pratica che si concretizza anche in stage ed esperienze professionali ancor prima di completare il percorso formativo obbligatorio. In Italia invece le competenze teoriche non hanno il tempo ed il modo di trasformarsi in abilità pratiche e i giovani usciti dall'università non sono produttivi per le aziende che potrebbero essere interessate ad assumerli oppure a farsi assistere con contratti diversi.

In particolare, fra le competenze trasversali di cui le aziende lamentano la mancanza ci sono la conoscenza linguistica con in cima la carenza di una sufficiente conoscenza dell'inglese, ma anche scarse competenze informatiche (spesso anche dei più comuni ‘fogli elettronici’) e, più in generale, la totale mancanza di una cultura aziendale e di problem solving.

Volendo andare nello specifico, invece, quello che le imprese italiane denunciano è la mancanza di abilità tecnico pratiche. Per essere più chiari, un giovane laureato che esce dalla facoltà di economica e commercio di una università italiana di medio livello sa magari tutto delle teorie economiche dall'Ottocento in poi ma non sa leggere e gestire un bilancio, nè una busta paga e tantomeno affrontare un piano di tesoreria aziendale o un sistema di programmazione e controllo di gestione in impresa.

Come rimediare al gap fra competenze richieste e abilità effettive? In attesa di una totale e profonda riforma universitaria che stravolga completamente le metodologie didattiche fin qui utilizzate, la formazione professionale resta l'unico strumento possibile per eliminare questo gap che si trasforma in un reale impedimento allo sviluppo imprenditoriale delle realtà produttive. Ma come più volte detto è necessario scegliere con attenzione il Master/Corso e l’Ente che lo eroga, perché possa considerarsi un investimento giusto per il proprio futuro.

La sfida è grande anche perchè le carenze spesso non sono neanche imputabili ad una mancanza di volontà di apprendimento ma proprio perchè, come dicevamo, il sistema accademico italiano non permette adeguata preparazione. Questa sfida, intanto, è stata raccolta da alcune Business School che hanno introdotto all’interno dei loro eventi formativi dei veri e propri percorsi esperienziali ed esercitativi tali da formare figure in grado di offrire le proprie competenze alle imprese (anche sotto forma di consulenza) in specifici ambiti professionali, cercando di mantenere i costi contenuti, proprio per promuovere la diffusione di quella cultura d’impresa che servirebbe per rilanciare con maggior fiducia l’imprenditorialità nel nostro paese.

Un piccolo passo verso un lungo cammino che dovrà necessariamente portare ad una revisione completa del sistema.