A cura di E. Brambilla e G. Iovino (partecipanti in area Legale)

Illustri autori osservano già da tempo un'importante crisi della giurisdizione statuale dovuta a noti fattori quali la lentezza dei procedimenti, l'onerosità, le disfunzioni organizzative e la mancanza di risorse, insieme colpevoli di rendere il giudizio ordinario non realmente capace di offrire un'adeguata tutela ai cittadini. In tale contesto non stupisce che le istituzioni, persino quelle europee, abbiano mostrato interesse verso strumenti alternativi di composizione delle controversie. Si è quindi giunti ad affermare che non solo le tradizionali autorità statali sono in grado di svolgere l'attività giurisdizionale ma che lo ius dicere possa essere ormai prerogativa consolidata anche di organizzazioni ed entità non tradizionalmente statuali. Tra le entità non statuali con il potere di ius dicere un ruolo preminente è sicuramente occupato oggi dall'arbitrato, annoverato tra i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (comunemente chiamati ADR, ossia Alternative Dispute Resolutions). Diversi autori rintracciano nella flessibilità degli schemi procedimentali delle ADR il carattere di maggior interesse e giungono fino a riconoscere espressamente al giudice privato l'esercizio di attività giurisdizionale.

Viene inoltre sottolineato come, anziché parlare di "degiurisdizionalizzazione", sia piuttosto il caso di sottolineare l'equiparazione contenutistica tra il mezzo alternativo di risoluzione delle controversie basato sulla libera determinazione delle parti coinvolte e il classico giudizio ordinario. È vero che aprendo la porta alle ADR si va incontro all'individuazione di forme di giustizia lontane dal mondo della sovranità statale ma è vero anche che permangono molti aspetti non sottovalutabili di parallelismo tra giudizio ordinario e arbitrato.

I punti di maggior vicinanza tra arbitrato e giudizio ordinario sono rintracciabili nelle condizioni fondamentali per il corretto instaurarsi di un giudizio sorretto dalle garanzie già da tempo riconosciute, prima a livello sovranazionale e poi a livello nazionale, da diversi documenti aventi nel territorio italiano valore cogente e non derogabile. In particolare, è opinione diffusa che gli ormai ben noti art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (di seguito, CEDU) e l'art. 111 Cost. si applichino anche alla materia arbitrale. Giova qui ricordare per sommi capi che le due norme appena richiamate prevedono i corollari minimi che devono accompagnare lo svolgersi del cosiddetto "giusto processo" come i caratteri di terzietà e imparzialità dell'organo giudicante e il principio del contraddittorio. All'arbitrato sono quindi intimamente connesse le caratteristiche di imparzialità e indipendenza oltre che di neutralità, etica, riservatezza, professionalità e alta competenza del soggetto giudicante in relazione alla materia oggetto della lite. A proposito dell'imparzialità dell'arbitro è stato detto che essa sia un canone di comportamento non giudicabile a priori. L'imparzialità sarebbe quindi definibile come equidistanza rispetto agli interessi contrapposti delle parti in lite e si tradurrebbe in obiettività di giudizio e onestà intellettuale. Per quanto riguarda l'indipendenza si è adottata invece un'ottica statica puntando l'attenzione sull'assenza di legami con le parti tali da mettere in dubbio l'equidistanza del giudicante. L'art. 815 c.c. segue la dimensione oggettiva per verificare se l'arbitro versi in una situazione di indipendenza stabilendo un elenco tassativo (manca la formula elastica delle "gravi ragioni di convenienza") di casi in cui si suppone manchi l'indipendenza dell'arbitro. All'art. 815 c.c. si fa espresso richiamo ai casi in cui l'arbitro abbia interesse nella causa, l'arbitro sia il coniuge, parente fino al quarto grado, convivente o rappresentante legale di una delle parti, l'arbitro abbia una causa pendente o un rapporto di grave inimicizia con una delle parti o se l'arbitro abbia prestato consulenza, assistenza o difesa a una delle parti in una precedente fase della vicenda. La norma è chiara: in caso si ravvisi in capo all'arbitro scelto una delle situazioni riportate dall'art. 815 c.c., le parti possono proporre la ricusazione dell'arbitro stesso.

Nonostante la presenza di un elenco dettagliato e tassativo, si è assistito a innumerevoli tentativi di chiarimento ad opera soprattutto di autorevoli guidelines e dei Codici Deontologici Arbitrali. Non ultimo nella prassi si è assistito sempre più spesso all'inserimento nel compromesso arbitrale di clausole inerenti i requisiti di terzietà e imparzialità degli arbitri, con indubbie ricadute sul piano della responsabilità degli stessi. Si pensi ad esempio al caso dell'obbligo di disclosure, previsto in forza di una previsione pattizia, operato tramite il rinvio posto dai litiganti ai regolamenti di istituzioni che amministrino la procedura o tramite l'applicazione agli arbitri di codici deontologici vigenti per alcune categorie professionali. Questo per quanto riguarda i principi ma nella pratica l'effettiva protezione dell'indipendenza degli arbitri può rivelarsi molto difficile, fino a sembrare un'utopia. Il requisito dell'indipendenza nella pratica sembra essere maggiormente protetto negli arbitrati amministrati svoltisi presso la Camera arbitrale per contratti pubblici, organo ausiliario dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito, ANAC), sia grazie all'attività di vigilanza svolta dalla Camera arbitrale già in sede di iscrizione all'albo degli Arbitri camerali, sia grazie ai principi racchiusi nei Codici deontologici (come il Codice Deontologico forense), oltre che, infine, grazie ai Comunicati della Camera arbitrale per i contratti pubblici.

Infine veniamo a una riflessione di massima rispetto alle questioni aperte relative agli arbitri designati dalle parti. L'arbitro indicato dalla parte potrebbe certamente sostenere la tesi della medesima da cui è stato scelto, trovandosi di fatto in una sorta di limbo tra il ruolo dell'avvocato e quello del giudice, meno schierato del primo ma meno equidistante del secondo. La sua integrale equidistanza è minata ab origine dell'atto di nomina e l'arbitro, in virtù del rapporto con la parte, potrebbe avvertire quasi un dovere di lealtà verso di essa. In questi termini la mancanza di equidistanza tra le parti sembrerebbe fisiologica per l'arbitro nominato dalla parte ma occorre comunque riflettere sui limiti che questa propensione debba rispettare per non scadere in parzialità. Senza tralasciare che la materia giuridica è spesso opinabile, il ruolo dell'arbitro di parte può essere interpretato come quello di chi cura che le tesi della parte che lo ha designato siano tenute in debita considerazione fermo restando che egli, oltre a svolgere questo ruolo di stimolo, dovrà anche esprimersi contro le stesse ove non gli appaiano convincenti.

In un contesto del genere emerge un importante nesso con il principio del contraddittorio letto sotto una duplice visione. Da un lato il principio del contraddittorio risulta connesso con il diritto di difesa in base a cui nessuno può subire una decisione senza aver avuto modo di esporre le proprie ragioni in condizione di parità con la controparte. In secondo luogo, il contraddittorio è considerato la metodologia migliore per il raggiungimento della decisione. In questo modo l'arbitro scelto da una delle parti avrà l'ulteriore compito di far sì che il Collegio arbitrale pervenga alla decisione esaminando a fondo la tesi sostenuta dalla parte designante incoraggiando il dibattito e rafforzando così l'efficacia concreta del contraddittorio. A rafforzare la corrente di pensiero sostenitrice della vicinanza tra arbitrato e giudizio ordinario è giunta la pronuncia della Corte costituzionale 28 novembre 2001, n. 376 la quale ha dichiarato che "l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie".

Nonostante la Corte Costituzionale abbia riconosciuto più volte i punti di contatti tra arbitrato e giudizio ordinario (Corte Costituzionale 18 novembre 1976, n. 226 e 2 luglio 1966, n. 83), l'art. 819 ter, comma 2 c.p.c., nella versione precedente al 2013, prevedeva una sorta di incomunicabilità tra arbitrato e giudizio ordinario prescrivendo la non applicabilità all'arbitrato, tra le altre norme, dell'art. 50 c.p.c. Il menzionato art. 50 c.p.c., rubricato "Riassunzione della causa", prevedeva che nei rapporti tra arbitrato e processo ordinario non si applicasse la regola della riassunzione della causa. Da più lati questa norma è stata percepita come non adatta a gestire i rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria.

Il primo passo verso la limitazione del raggio d'azione della disposizione qui in esame è stato l'ordinanza della VI sezione della Corte di Cassazione del 6 dicembre 2012, n. 22002 che ha interpretato l'art. 50 c.p.c. delimitando la non applicabilità dell'art. 50 c.p.c. al solo caso in cui siano gli arbitri a escludere la propria competenza e a riconoscere quella del giudice ordinario. Nel caso invece in cui sia il giudice togato a dichiararsi incompetente a beneficio degli arbitri, oppure sia la Corte di Cassazione a dichiarare la competenza di quest’ultimi, era stato ritenuto applicabile la riassunzione della causa dinanzi agli arbitri. In sintesi, questa lettura disegnava un meccanismo di translatio iudicii a senso unico. Tuttavia la pronuncia qui richiamata non è stata soddisfacente per superare la denunciata contrarietà della norma rispetto ai principi costituzionali della disciplina dettata dal legislatore ordinario, per tale ragione si è quindi invocato nuovamente l'intervento della Corte Costituzionale. Tale intervento non si è fatto attendere: la Suprema Corte con la sentenza 19 luglio 2013, n. 223 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 819 ter c.p.c., secondo comma "nella parte in cui esclude l'applicabilità, ai rapporti tra arbitrato e processo, di regole corrispondenti alle previsioni dell'art. 50 cpc, ferma la parte restate dello stesso art. 819 ter c.p.c.".

La pronuncia consta di due passaggi fondamentali. In prima battuta viene censurata la lettura proposta dalla antecedente ordinanza della Corte di Cassazione n. 22002/2012 che stabiliva l'applicazione dell'art. 819 ter c.p.c., comma secondo, solo ai rapporti tra arbitrato e processo ordinario. In secondo luogo, il Giudice delle leggi, richiamando la summenzionata sentenza n. 376/2001, dichiara la necessità di conservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta avanti ad un giudice non competente. Alla luce dell'art. 24 Cost., che impone all'ordinamento di prevedere misure adeguate per un'effettiva tutela dei diritti, al fine di evitare che un errore nell’individuazione della competenza giurisdizionale possa pregiudicare i diritti oggetto di tutela, si rende quindi necessario assicurare anche nei rapporti tra arbitrato e giudizio ordinario la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice non competente. Questa è la riaffermazione del principio di salvezza degli effetti della domanda proposta al giudice incompetente, principio già enunciato nella sentenza Corte Costituzionale 12 marzo 2007, n. 77.

La sentenza n. 223/2013 è un momento fondamentale per lo sviluppo e l'evoluzione sia dell'istituto dell'arbitrato che per i rapporti intercorrenti tra arbitrato e giudizio ordinario: essa ha il pregio di avvicinare l'arbitrato al giudizio ordinario e allo stesso tempo di evidenziare ancora una volta la vicinanza e la fungibilità tra i due modelli di giudizio. La sentenza n. 223/2013 emenda il codice di rito imponendo la possibilità del passaggio da una tutela all'altra, in una corrispondenza biunivoca che presuppone la reciprocità tra le due tutele. Questo è il motivo centrale per considerarla a tutti gli effetti un importante tassello nel percorso di affermazione del principio di translatio iudicii già spalancatosi con la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite 22 febbraio 2007, n. 4109, confermato immediatamente dalla Corte Costituzionale con sentenza 12 marzo 2007, n. 77, suggellato infine dall'art. 11 D. lgs. 2 luglio 2010, n. 104 e dall'art. 59 legge 18 giugno 2009, n. 69 il quale ha tradotto in legge il meccanismo di translatio iudicii tra ordini differenti di giurisdizione.

Una volta affermata la piena operatività della translatio iudicii tra arbitrato e giudizio ordinario si è quindi potuto ricomporre il contrasto da molti rilevato tra l'art. 819 ter c.p.c., comma 2 e gli art. 3, 24 e 111 Cost. che portava inevitabilmente a una violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo determinando l'impossibilità di far salvi gli effetti sostanziali e processuali dell'originaria domanda proposta dall'attore.

Ecco, in conclusione, il suggellarsi di un concreto avvicinamento tra il giudizio ordinario e l'arbitrato sul piano sia dei principi cardine che degli effetti pratici. Il meccanismo della translatio iudicii, oltre ad assicurare l'unità e la coerenza del sistema giudiziario è un passaggio in direzione della tutela concreta dei diritti delle parti e verso la possibilità per le persone di servirsi in modo pienamente efficace di tutti gli strumenti messi a disposizione del legislatore.

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PRONUNCE

Corte Costituzionale 19 luglio 2013, n. 223

Corte di Cassazione ord. 6 dicembre 2012, n. 22002

Corte Costituzionale 28 novembre 2001, n. 376

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