A cura di S. Cortelazzo (partecipante del Master in Giurista d'Impresa)

Nel corso degli ultimi tempi si è assistito a numerosi scandali finanziari con gravi ripercussioni mondiali. Tutto ciò ha ben presto gettato luce su un’importante questione: i primi ad essere in grado di intuire eventuali anomalie all’interno di un’impresa sono coloro che vi operano. Sebbene rappresentino una preziosa risorsa nella prevenzione e nella lotta contro la commissione di illeciti (“serious malpractices” o “wrong doings”), i dipendenti, nella maggior parte dei casi scelgono di non esporsi-così come dimostrato da un sondaggio dell’Eurobarometro del 2014, in base al quale ben 3 europei su 4, testimoni di illeciti o corruzione, non avrebbero fatto denuncia -per timore di ritorsioni da parte dei denunciati, del resto, normalmente ricoprenti un ruolo apicale nel medesimo contesto aziendale. Al di là di un’urgenza democratica di lotta all’illegalità, non si può nemmeno trascurare che dalla predisposizione di un apparato normativo tutelante quanti scelgano di schierarsi a presidio della cultura della legalità discenda un ulteriore vantaggio, di tipo economico.

Una recente analisi pubblicata dalla Commissione Europea ha dimostrato, infatti, che i costi investiti nell’emanazione di una disciplina legislativa adeguata a questo scopo sono ben inferiori ai benefici economici derivanti dalle segnalazioni. Più precisamente, l’indagine ha stimato in una cifra compresa tra i 5.8 e i 9.6 miliardi di euro i vantaggi potenziali derivanti da un’effettiva protezione dei whistleblowers in ambito continentale. Sulla base di questi dati, la Commissione stessa ha presentato una proposta di direttiva, che obbligherà tutte le amministrazioni statali e regionali, nonché i comuni con più di 10 mila abitanti e le imprese con più di 50 dipendenti o con un fatturato annuo superiore ai 10 milioni di euro a stabilire una procedura interna per gestire efficacemente le segnalazioni;e ciò, con l’obiettivo di garantire in tutti e 28 Stati (si badi, anche laddove sia assente una normativa nazionale) la tutela di chi denunci pubblicamente violazioni al diritto Ue in materia di appalti pubblici, servizi finanziari, riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo, sicurezza dei prodotti, sicurezza dei trasporti, tutela ambientale, sicurezza nucleare, sicurezza degli alimenti e dei mangimi, salute e benessere degli animali, salute pubblica, protezione dei consumatori, tutela della vita privata, protezione dei dati e sicurezza delle reti e dei sistemi informativi, violazioni delle norme Ue sulla concorrenza e sulla fiscalità.

Ad oggi, tuttavia, nonostante sull’argomento siano intervenute due Convenzioni internazionali (Convenzione Civile sulla corruzione firmata a Strasburgo il 4 novembre 1999, che all’articolo 9 richiede una protezione adeguata per i dipendenti i quali, in buona fede, denuncino fatti di corruzione; Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 3 ottobre 2003, che all’articolo 33 prevede la protezione per le persone che riferiscono su fatti di corruzione) non esiste ancora un quadro comune UE. Per tale ragione, le normative nazionali a tutela dei whistleblowers (letteralmente “soffiatori di fischietto”) variano significativamente da Paese a Paese, con conseguenti lacune e disparità:leggi anti-corruzione, leggi sul pubblico servizio, leggi sul lavoro, il codice penale o specifiche norme di settore. In questo scenario, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha, di conseguenza, svolto un ruolo chiave, ancorato al parametro giuridico dell’art. 10 CEDU, tutelante la libertà di “ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, fatte salve le restrizioni comunque “necessarie in una società democratica” (eccezioni consistenti nella salvaguardia di interessi legali, quali il diritto alla privacy e la dignità personale odi interessi superindividuali, come la sicurezza nazionale).La procedura normalmente seguita per una corretta valutazione della legittimità del diritto/dovere di critica, prevede il bilanciamento tra libertà di espressione del pensiero del lavoratore e diritti della persona del datore di lavoro, nel rispetto, dunque,degli obblighi di correttezza e buona fede.

Passaggio certamente fondamentale in questo senso, la verifica della sussistenza del criterio di “continenza sostanziale” (in base al quale la denuncia deve avere ad oggetto fatti veri, valendo altresì l’esimente di una dichiarazione avvenuta in buona fede, ovvero in assenza di dolo o colpa grave, c.d. verità putativa) e quello di “continenza formale” (il quale impone che toni ed espressioni siano in ogni caso improntati a correttezza e misura, ossia inidonei a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro). A questi due principi si aggiunge, altresì, il criterio dell’“interesse perseguito”, cioè la valutazione della concreta funzione della comunicazione, la quale dovrà necessariamente garantire la salvaguardia di un interesse prevalente rispetto a quello personale, o, più raramente,rappresentare un mezzo obiettivamente indispensabile ai fini della tutela di primari valori individuali.

Tra i punti più dibattuti fin dall’origine nell’ambito della protezione del whistleblower, emerge il tema dell’anonimato. La critica si è concentrata, specie nel nostro Paese, sul rischio di un’escalation di segnalazioni, a discapito quindi della credibilità dei denuncianti e dell’affidabilità del sistema nel suo complesso. Molti paesi OCSE hanno così optato per una mera protezione dell’identità del segnalante.

Nel nostro ordinamento la giurisprudenza si è costantemente espressa in modo sfavorevole rispetto alla secretazione dell’identità del denunciante, sulla scorta,innanzitutto, di quanto emblematicamente sancito dall’art. 111 Cost., in base al quale tra gli elementi essenziali del giusto processo figurerebbe anche il diritto dell’accusato di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, presupponendo così il diritto di conoscere il nome dell’autore. In secondo luogo, il codice di procedura penale sottolinea ulteriormente la diffidenza del nostro sistema giuridico nei confronti dell’anonimato: così l'art. 240 (che preclude la possibilità di acquisire o utilizzare, salvo che costituiscano il corpo del reato o provengano comunque dall'imputato, documenti che contengono dichiarazioni anonime), l'art. 195, comma 7 (per il quale è inutilizzabile la testimonianza di chi si rifiuta o non è in grado di indicare la persona o la fonte da cui appreso la notizia dei fatti oggetto dell'esame) e, ancora, l'art. 203 (che prevede l'inutilizzabilità delle informazioni rese dagli informatori alla polizia giudiziaria nel caso in cui l'identità degli stessi non venga svelata).  Sul punto è intervenuta la Cassazione nella prima sentenza successiva all’entrata in vigore della legge 179/2017; in tale occasione, la Suprema Corte ha stabilito che la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante non è assoluta, in quanto, specialmente nell’ambito di un procedimento penale, non possono non trovare applicazione le norme previste dal codice di rito in tema di segreto (fatte salve dal rinvio all’art. 329 c.p.p. operato dallo stesso comma 3 dell’art.1 della legge del 30 novembre 2017, nonché dal comma 9 del medesimo articolo, in base al quale la tutela dell’identità del segnalante non può essere garantita nei casi in cui “sia accertata anche con sentenza di primo grado la sussistenza dei reati di calunnia o diffamazione, o la responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave”); in un eventuale procedimento disciplinare, poi, sebbene l’anonimato sia garantito dalla novella legislativa, esso può cadere – con il consenso del segnalante - qualora la conoscenza dell’identità sia strettamente indispensabile ai fini della difesa dell’accusato.

Fermo restando questo orientamento– con cui si è pertanto precisata la necessità di garantire il diritto di difesa, in quanto “la segnalazione non costituisce mero punto investigativo, ma vero e proprio atto d’accusa” -  con un comunicato del 6 febbraio 2018, il Presidente dell’ANAC, a distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione della nuova legge (fondante il c.d. Statuto del whistleblower), ha reso noto che dall’8 febbraio 2018 sarà operativa l’applicazione informatica per l’acquisizione e la gestione delle segnalazioni di illeciti da parte dei pubblici dipendenti (secondo la definizione allargata fornita dalla nuova versione dell’art. 54 bis del d.lgs. 165/2001: oltre ai dipendenti della pubblica amministrazione, anche i dipendenti di enti pubblici economici o enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, nonché i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica).

Allo scopo di garantire efficacemente la tutela della riservatezza, l’identità del segnalante sarà protetta attraverso l’assegnazione di un codice generato dal sistema, grazie al quale il denunciante avrà la possibilità di dialogare con l’ANAC in maniera spersonalizzata per mezzo della piattaforma informatica. Si aggiunge che, a partire dalla data di effettiva attività del portale, sarà garantita la massima riservatezza unicamente alle segnalazioni pervenute attraverso il suddetto sistema; pertanto, tutti coloro che hanno inoltrato le denunce a partire dall’entrata in vigore della nuova legge tramite ogni altro canale(tra quelli previsti dalla recente normativa: telefono, posta elettronica certificata e non, protocollo generale) sono invitati ad inviarle nuovamente ed esclusivamente alla piattaforma ANAC. L’intervento dell’Autorità nazionale anticorruzione ha quindi accentrato la garanzia, alterando il precedente assetto in base al quale l’ANAC era stata inserita nella rosa di possibili destinatari delle segnalazioni conosciute in ragione del rapporto di lavoro (accanto al Responsabile della prevenzione della corruzione –di norma un dirigente amministrativo, negli enti locali il segretario – ed all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile).

Ad avviso dell’Autorità, infatti, la disposizione originale delineava esclusivamente una protezione generale e astratta: essa per più versi doveva essere necessariamente completata con concrete misure di tutela del dipendente, il quale - per effettuare la propria segnalazione - deve poter fare affidamento su una protezione effettiva ed efficace, che gli eviti un’esposizione a misure discriminatorie. Tutela indispensabile, considerato il fatto che si tratta di una garanzia funzionale all’interesse oggettivo dell’ordinamento, ovvero all’emersione dei fenomeni di corruzione e di mala gestio (disfunzioni riassumibili in illeciti “che vanno dalle resistenze al cambiamento, al formalismo, all’indifferenza all’efficienza, all’ostilità verso la tecnologia, al nepotismo, alla corruzione”).

Nella stessa direzione si sono mosse le modifiche dell’art. 54-bis, introdotto dalla legge anticorruzione (e precisamente dall’articolo 1, comma 51, della l. n. 190 del 2012) e che la novella legislativa del 2017 ha ridefinito, ridisegnandone l’ambito di applicazione sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. Dal primo punto di vista, si è precisato che le segnalazioni devono essere effettuate unicamente nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione. Con una variazione al testo approvata al Senato, è stato inoltre  eliminato l’espresso riferimento alla “buona fede” dell’autore della segnalazione, con salvezza perciò dei soli  elementi di fatto “precisi e concordanti” (il requisito soggettivo, in realtà, è comunque evocato nel Piano nazionale anticorruzione 2016, laddove l’ANAC vi fa riferimento, nel precisare che l’istituto “non deve essere utilizzato per esigenze individuali, ma finalizzato a promuovere l’etica e l’integrità nella pubblica amministrazione”). La recente normativa sancisce altresì che il segnalante non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione.

Si prevede poi che l'adozione di misure ritenute ritorsive sia comunicata in ogni caso all’ANAC (in precedenza, la comunicazione era indirizzata al Dipartimento della funzione pubblica) da parte dell’interessato o delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative (nell’Amministrazione nella quale le stesse misure siano state poste in essere) e che l’ANAC informi il Dipartimento della funzione pubblica o gli altri organismi di garanzia o di disciplina, per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. Gli atti discriminatori o ritorsivi sono in ogni caso nulli; il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto e al risarcimento del danno.

Le tutele non sono, tuttavia, garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante, ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave. Ulteriore novità: sarà a carico dell’amministrazione dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. È stata inoltre introdotta una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro, a carico del responsabile che abbia adottato una misura discriminatoria. La sussistenza di una misura discriminatoria è accertata dall'ANAC, che è altresì competente ad irrogare la relativa sanzione. L’Autorità è chiamata ad applicare al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro, qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni, ovvero l’adozione di procedure non conformi agli indirizzi della stessa Autorità, ovvero qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute.

L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’Amministrazione o dell’Ente cui si riferisce la segnalazione. Per concludere, è opportuno ricordare brevemente in che modo la nuova disciplina intersechi la questione della protezione del segreto d’azienda. L’art. 3 introdotto nel corso dell’esame al Senato introduce come giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio, professionale, scientifico ed industriale, il perseguimento, da parte del dipendente pubblico o privato che segnali illeciti, dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, nonché alla prevenzione ed alla repressione delle malversazioni. La giusta causa resiste dunque come scriminante nel presupposto che vi sia un interesse preminente che impone o consente tale rivelazione. Costituisce invece violazione dell’obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito.

L’intervento legislativo in discorso, frutto di un lungo iter parlamentare e di un acceso dibattito negli ultimi anni di “sperimentazione” del sistema di protezione del whistleblower (nato nel contesto statunitense), ha delineato un quadro maggiormente esaustivo rispetto al passato. Assodati i notevoli passi avanti compiuti nel tentativo di porre rimedio ai significativi rischi legati alle difficoltà di garantire la tutela della legalità, è bene non perdere di vista il punto cruciale della questione: il successo della nuova normativa dipenderà strettamente dalla capacità delle Amministrazioni di diffondere la cultura del dovere di segnalazione, incentivando un clima di fiducia sull’effettività della giustizia realizzata “dal basso”.

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Bibliografia e Sitografia

 

Prime riflessioni sul c.d. Whistleblowing: un modello da replicare «ad occhi chiusi»? Riv. it. dir. lav., fasc.2, 2010, pag. 335, Roberto Lattanzi.

Whistleblowing alla scala di Milano: una ballerina denuncia il rischio di anoressia fra i componenti del corpo di ballo,Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.2, 2014, pag. 511, Maria Teresa Carinci.

Trasparenza ed anticorruzione, Sanzioni amministrative dell’ANAC a tutela del c.d. whistleblowing, Quotidiano giuridico online del 15/12/2017, Chiara Di Seri.

http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2017;179, Legge 30 novembre 2017, n.179, disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato. (17G00193) (G.U. n.291 del 14/12/2017).

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-15/il-whistleblowing-e-legge-tutelato-dipendente-che-segnala-illeciti-120411.shtml?uuid=AEyTBxBD&refresh_ce=1, Il whistleblowing è legge: tutelato il dipendente che segnala illeciti, Redazione online, 15 novembre 2017.

https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?ca=7115 , Comunicato del Presidente del 6 febbraio 2018, Segnalazioni di illeciti presentate dal dipendente pubblico (c.d. Whistleblower).

https://www.studiocataldi.it/articoli/30168-whistleblowing-targato-europa.asp, Whistleblowing targato Europa, Tutela per i whistleblowers anche in caso di violazioni al diritto UE. Le proposte della Commissione Europea, 24/04/2018, Gabriella Lax.

https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Whistleblowing-in-attesa-di-tutela-europea-183514, Whistleblowing, in attesa di tutela europea, 27/10/2017, Osservatorio Balcani e caucasotranseuropa.

https://www.filodiritto.com/news/2018/whistleblowing-cassazione-penale-la-segnalazione-un-vero-e-proprio-atto-di-accusa-e-lanonimato-non-assoluto-ma-cede-di.html, Whistleblowing  - Cassazione Penale: la segnalazione è un vero e proprio atto di accusa e l’anonimato non è assoluto ma cede di fronte al diritto di difesa, 1/03/2018, Lorenzo Pispero.

 

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