La disciplina del transfer pricing

A cura di Francesco BrameriniManuela MalteseMario Recchia (partecipanti agli Executive Master in Giurista d'Impresa e Avvocato di Affari)


I nuovi confini dell’abuso nel diritto tributario

Nella fase di pianificazione di un’operazione di transfer pricing, acquista particolare rilevanza l’analisi della vigente disciplina in tema di abuso del diritto in materia di tributi, che assurge a principio generale atto a precludere lo spostamento di capitali da imprese residenti in Italia a società residenti in Stati con minore pressione fiscale, ma facenti capo al medesimo gruppo societario, al solo o preminente scopo di distrarre reddito soggetto a tassazione, attraverso la pattuizione di prezzi per l’acquisto di beni o servizi che siano differenti dal loro “valore normale” di mercato, come definito all’art. 9 T.U.I.R.

La disciplina del transfer pricing, come si è più sopra visto, è contenuta all’art. 110 c. 7 T.U.I.R., norma palesemente votata a scopi antielusivi, ma sostanzialmente riguardante gli obblighi specifici che l’impresa residente in Italia deve adempiere per la determinazione della base imponibile ai fini IRES, tra cui la sostituzione del prezzo contrattualmente determinato di beni e servizi trasferiti con il loro valore normale di mercato ricorrendo allo strumento delle variazioni in aumento e in diminuzione, a pena di incorrere nell’irrogazione di una sanzione amministrativa di importo compreso tra il 90% e il 180% della maggiore imposta accertata[1].

Il legislatore fiscale nel limitarsi a regolamentare il contenuto delle dichiarazioni ai fini IRES dell’impresa residente in Italia, quando la stessa sia stata interessata da operazioni di transfer pricing infragruppo, non può che confermare la piena validità di tali operazioni sul piano civilistico.

Eppure, la sostenibilità delle operazioni di transfer pricing infragruppo e transnazionali è confinata in un ristretto range compreso tra l’evasione fiscale, penalmente rilevante, e l’abuso del diritto, che seppure penalmente irrilevante[2], comporterebbe il ricalcolo dell’imposta in base alle norme eluse da parte dell’A.F., alla quale non sarebbero opponibili i vantaggi fiscali conseguiti mediante tali operazioni, ai sensi del nuovo art. 10bis T.U.I.R., introdotto con d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015.

L’art. 10bis opera una svolta nella fiscalità internazionale, unificando la disciplina dell’abuso del

diritto con quella sull’elusione delle norme fiscali[3], nonché abrogando l’art. 37bis del DPR 600/73,

che si limitava a sancire ipotesi tassative e non esaustive di elusione.

Il legislatore italiano ha, in questo modo, dato attuazione alla Raccomandazione della Commissione UE sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 772 del 6 dicembre 2012, che caldeggiava gli Stati membri all’adozione di una generale norma antiabuso nel settore delle imposte dirette, seppure estendendo il disposto di cui all’art. 10bis T.U.I.R. all’intera materia tributaria (fatti salvi i tributi doganali).

Già con la storica sentenza del 21 febbraio 2006, causa C- 255102, sul caso Halifax, la CGUE, per la prima volta elabora la nozione il comportamento abusivo in materia di IVA, da cui conseguiva l’inopponibilità all’A.F. dei vantaggi fiscali che il contribuente si era procurato mediante schemi contrattuali contrastanti con la ratio della norma tributaria.

Per la Corte, infatti, quel comportamento, pur non essendo tipizzato tra le condotte fraudolente, comunque era da considerarsi elusivo dell’applicazione di una specifica norma tributaria ed il  “vantaggio fiscale” così conseguito non giustificato né giustificabile in quanto scopo “essenziale”, ancorché non esclusivo, di quell’operazione.

Anche la Suprema Corte di Cassazione, nel 2008, con le sentenze nn. 30055, 30056 e 30057

riconosceva l’esistenza di un generale principio antielusivo, che trovava fondamento nella

giurisprudenza UE per le imposte armonizzate e negli stessi principi costituzionali[4] per quelle non

armonizzate (come le imposte dirette), da cui derivava l’inefficacia nei confronti dell’A.F.,  di tutte quelle operazioni compiute “essenzialmente” per il conseguimento del vantaggio fiscale, salvo prova della sussistenza di ragioni economiche alternative a quelle addotte dall’A.F. in sede di accertamento e diverse dalla mera aspettativa di un vantaggio fiscale.

Secondo la definizione data dall’art. 10bis, che fa proprio il precedente orientamento giurisprudenziale, l’operazione è da ritenersi elusiva, con onere a carico dell’A.F., se priva di sostanza economica[5], se è conforme alle norme tributarie e tale da far conseguire un vantaggio fiscale indebito, che si atteggia ad effetto essenziale dell’operazione.

Proprio con riguardo a quest’ultimo criterio, per potere aversi abuso del diritto, occorrerà che il vantaggio fiscale non trovi collocazione negli istituti del legittimo risparmio d’imposta né dell’evasione.

È lo stesso c. 4  ad affermare, d’altro canto, che “resta ferma la libertà di scelta del  contribuente  tra  regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”, purchè ciò non sia contrario alle finalità o ai principi delle norme fiscali.

Il discrimen tra libertà di scelta, con conseguente risparmio d’imposta, ed abuso del diritto sarà dato proprio dall’indebito vantaggio fiscale, ottenuto attraverso l’aggiramento della ratio legis e dei principi dell’ordinamento tributario[6].

Tale disposto risponde alla preminente esigenza di tutelare e salvaguardare l’iniziativa imprenditoriale  e la libertà economica contro ingerenze possibili dell’A.F. (Cass. civ., sent. n. 17175 del 26 agosto 2015).

Si tenga conto, in ogni caso, che l’abusività è esclusa tutte le volte che l’operazione sia giustificata da ragioni extrafiscali non secondarie, come quelle di natura organizzativa o strutturale, anche laddove non comportino una redditività immediata, con conseguente ribaltamento dell’onere

probatorio in capo al contribuente, secondo quanto sarà più oltre specificato[7].

Perciò, non può che concludersi nel senso della residualità di un siffatto regime antielusivo, non solo rispetto a scelte imprenditoriali insindacabilmente rimesse al contribuente e non costituenti arbitrarie manipolazioni dei prezzi con la finalità di conseguire un vantaggio fiscale, ma anche rispetto alla violazione diretta di norme tributarie, che costituirebbe un’ipotesi di evasione penalmente rilevante[8].

Infine, vale la pena soffermarsi sul transfer price cd. “domestico”, cioè privo del carattere di transnazionalità, che non rientra nella disciplina di cui all’art. 110 c. 7 T.U.I.R., per espressa esclusione ai sensi dell’art. 5 c. 2 d.lgs. 147/2015.

Sul punto, una prima pronuncia del Supremo Consesso (sent. n. 8849 del 16 aprile 2014), in accoglimento del ricorso proposto dall’A.F., sanciva l’obbligatorietà del criterio del valore normale di cui all’art. 9 T.U.I.R. ai fini della determinazione del reddito d’impresa, anche laddove la transazione fosse avvenuta tra imprese consociate entrambe residenti in Italia, essendo tale criterio adoperato alla stregua di clausola generale antielusiva delle norme tributarie.

Alla luce delle recenti modifiche legislative, tale orientamento giurisprudenziale risulterebbe oggi essere superato in considerazione del fatto che anche le operazioni di transfer pricing “interno”, sebbene non specificamente disciplinate ai fini della fiscalità d’impresa, ma comunque ragionevolmente diffuse ed ammissibili nella prassi, incontrano il limite superiore del divieto di condotta elusiva della norma fiscale in virtù del generale principio di cui al nuovo art. 10bis T.U.I.R.

Il transfer pricing e l’onere probatorio

In tema di transfer pricing l’onere della prova è un aspetto cruciale sia per l’A.F. che per il contribuente.

Dalla Sentenza di Cassazione n.16399 del 05/08/2015 si evince che esso deve essere ripartito a seconda che riguardi rettifiche sui ricavi o sulla deducibilità dei costi sostenuti.

Nel primo caso, l’onere probatorio grava sull’A.F., la quale deve dimostrare sia l’esistenza di transazioni collegate che lo scostamento fra i corrispettivi  infragruppo e quelli di mercato; mentre, nel secondo caso, in ossequio al c.d. principio di vicinanza della prova, spetterebbe al contribuente provare sia l’esistenza che l’inerenza dei componenti negativi di reddito.

Il contribuente, inoltre, quando gli viene richiesto, ha anche il compito di produrre qualsiasi elemento in grado di dimostrare come l’operazione infragruppo sia stata conforme ai normali valori di mercato, ex art. 9, comma 3, T.U.I.R.[9]

L’A.F., invece, una volta accertato lo scostamento dal prezzo dal “valore normale”,  attuerà, il c.d. metodo CUP, conformandolo al prezzo comparabile di libero mercato.

A tal fine potranno essere utilizzati due criteri: il più frequente è il c.d. confronto interno, che paragona il valore del trasferimento dell’oggetto della transazione con quello che verrebbe utilizzato tra un’impresa del gruppo (di solito la capogruppo) e un terzo indipendente; altro criterio è il c.d. confronto esterno, che prende come riferimento transazioni fra società estere.

Quest’ultimo risulta essere poco attuato, per una serie di fattori che rendono difficile la comparazione, come ad esempio la sensibile diversità dei prodotti.

I giudici di legittimità, nella sentenza testé ricordata, sono però ben consapevoli che al fine dello scostamento fra i corrispettivi pattuiti per le operazioni infragruppo e quello di mercato, non è indefettibile il confronto fra prodotti o servizi “uguali o similari”.

Infatti, in assenza di quei presupposti[10] che permettano una comparazione tra le operazioni, è possibile ricorrere a metodi alternativi[11] di matrice sovranazionale, consigliati dall’OCSE, il cui ricorso si ritiene possibile solo in materia di accertamento.

Di recente il tema della prova è stato nuovamente oggetto di due sentenze della Corte di Cassazione che occorre ricordare.

Con la Sentenza n. 13387 del 30/06/2016 è stato deciso che l’onere probatorio, gravante sulla A.F., “si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato”, riservando al contribuente l’onere di dimostrare che il corrispettivo convenuto per l’operazione infragruppo, corrisponda a valori economici che il mercato adotta per tali operazioni.

Mentre con la sentenza n. 6656 del 06/04/2016 è stato affrontato un particolare caso concernente la fatturazione di costi di pubblicità da parte di una impresa estera alla società italiana, per la vendita di prodotti nel paese estero.

Siccome il ricavato dalle vendite non era sufficiente a compensare i costi pubblicitari, l’A.F. ne deduceva, da un lato, che si fosse realizzato un occultamento di un reddito mediante la simulazione di costi, e dall’altro, che gravasse a carico del contribuente l’onere di giustificare una simile anomalia.

I giudici di legittimità, invece, hanno ritenuto il contrario.

Secondo il loro avviso la prova doveva essere fornita dall’Agenzia, poiché il fatto controverso era estraneo alla materia della deducibilità dei costi.

Pertanto, con la sentenza de quo, veniva rigettato il ricorso della Agenzia, poiché “non ha adeguatamente dimostrato perché, sulla base dei valori normali delle merci vendute, il ricavo avrebbe dovuto essere superiore alla spesa sostenuta per vendere”.

Da questa breve disamina si evince che l’onere della prova in tema di transfer pricing, per quanto importante, risulta essere ancora caratterizzato da confini poco certi e precisi, alla cui definizione è bene provvedere il prima possibile. 

 

A questo articolo è collegato anche --> Il transfer pricing: tra abuso del diritto e onere della prova (Parte 1)


[1] Art. 1 c. d.lgs. 471/97.

[2] L’art. 10bis c. 13 T.U.I.R sancisce espressamente l’irrilevanza penale della condotta elusiva.

[3] L’art. 10bis c. 1 T.U.I.R. definisce unitariamente abuso ed elusione del diritto come “una  o piu' operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi  fiscali  indebiti.  Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione  finanziaria,  che ne disconosce i vantaggi determinando  i  tributi  sulla  base  delle norme e dei principi elusi e  tenuto  conto  di  quanto  versato  dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

[4] In particolare, l’art. 53 Cost. afferma i principi  di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, che informano l’intero ordinamento tributario.

[5] S’intende l’inidoneità dell’operazione a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. L’art. 10bis c. 2 lett. a) prevede che sono indici di assenza di sostanza economica “la  non  coerenza   della qualificazione delle singole operazioni con il  fondamento  giuridico del loro insieme e la non conformita' dell'utilizzo  degli  strumenti giuridici a normali logiche di mercato”.

[6] Con la sent. 439/2015, la Suprema Corte ha ritenuto non elusiva della normativa fiscale l’estinzione di una società per fusione in luogo della ordinaria liquidazione.

[7] Facendo proprio l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte (sentt. 1372/2011 e 4604/2014), il legislatore sancisce all’art. 10bis c. 3 T.U.I.R. che “non  si  considerano  abusive,  in  ogni  caso,  le  operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche  di ordine organizzativo o gestionale,  che  rispondono  a  finalità  di miglioramento   strutturale   o   funzionale   dell'impresa    ovvero dell'attività' professionale del contribuente”.

[8] È il c. 12 a prevedere che “in  sede  di  accertamento  l'abuso  del  diritto  può  essere configurato  solo  se  i  vantaggi   fiscali   non   possono   essere disconosciuti contestando la violazione  di  specifiche  disposizioni tributarie”.

[9] La norma dispone che per valore normale si intende “il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari, in condizione di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e in mancanza nel tempo e nel luogo più prossimi”.

[10] Si può ricordare: l'uguaglianza o somiglianza delle caratteristiche fisiche o qualitative dei beni o servizi; la possibilità  di collocamento nel medesimo mercato; il medesimo stadio di commercializzazione delle imprese.

[11] Sono i metodi del prezzo di rivendita e del costo maggiorato (costituito dalla somma del costo del prodotto e di un margine percentuale di profitto), nonché quelli basati sulla ripartizione degli utili o sulla comparazione degli stessi.

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