A cura dell'Avv. G. Arpea, Docente in area Legale

Il quesito

Lo statuto della s.r.l. può essere derogato, anche solo per alcuni aspetti e per un periodo di tempo limitato? In particolare, in caso di prelazione i soci della s.r.l. possono convenire preventivamente una riduzione del prezzo d’acquisto delle quote rispetto a quello eventualmente offerto da un terzo?

Esaminiamo i diversi aspetti della questione.

La “deroga” allo statuto

Il primo aspetto su cui interrogarci è se lo statuto sia derogabile e, nel caso, entro che margini.

Sembra che in dottrina[1] come in giurisprudenza[2] sia ormai acquisito, quantomeno proprio per le s.r.l., che un accordo parasociale possa incidere sullo statuto, derogandolo (senza doverne rispettare le forme per la modifica) quando:

  1. il patto sia stato stipulato da tutti i soci;
  2. non emerga un problema di opponibilità della decisione ai terzi, o comunque di vincolo verso i soci futuri;
  3. sempre che il patto medesimo comporti una modifica occasionale, temporanea – seppur protratta nel tempo – dello statuto.

Nella prassi, sono frequenti gli esempi di applicazione concreta di questo principio:

  • la decisione una tantum di tutti i soci che (senza modificare formalmente lo statuto) consentano il trasferimento della partecipazione in deroga al divieto statutario di circolazione ai sensi dell’art. 2469 c.c., con legittimazione a iscrivere il trasferimento nel Registro delle Imprese;
  • la decisione, sempre di tutti i soci, che consenta l’esclusione del loro diritto di sottoscrizione e l’offerta di nuove partecipazioni a terzi pur in mancanza della clausola di apertura prevista dall’art. 2481-bis c.c.

E ove manchi il connotato della “puntualità” della deroga statutaria, e anzi s’intraveda un effetto programmatico per i soci? In questo caso, la decisione andrebbe convertita in un vero e proprio patto parasociale con efficacia inter partes: si pensi all’esempio di un accordo con cui i soci di una s.r.l. pattuiscono dei criteri di liquidazione della partecipazione in caso di recesso di uno tra loro secondo termini diversi rispetto a quelli previsti dallo statuto.

L’ammissibilità della prelazione impropria

Una volta appurato che in generale lo statuto può essere derogato (a certe condizioni), ora possiamo interrogarci in particolare sulla deroga introdotta dalla c.d. “prelazione impropria”. Meglio, quel particolare tipo di prelazione impropria che consente al prelazionario l’acquisto a un prezzo diverso rispetto a quanto stabilito tra le parti originarie o quanto meno indicato nella denuntiatio, al contrario di quanto accade nella prelazione tout court che si limita ad attribuire un diritto a essere preferiti a parità di prezzo.

Già prima della riforma del diritto societario del 2003 era ritenuto possibile stabilire in anticipo d’imporre al socio alienante un prezzo determinato e inferiore a quello che avrebbe spuntato dal terzo[3]. Si è affermato, infatti, che la tutela dell’interesse sociale a non far entrare estranei in società giustificasse l’indebolimento statutario della libertà del socio alienante, il quale è pur sempre inserito in un contesto societario ed è tenuto perciò a subire quelle limitazioni finalizzate alla garanzia dell’interesse sociale.

Limiti della prelazione impropria e correttivi pratici

Ad ogni modo, è sempre stata viva la preoccupazione nei confronti del possibile aggiramento della prelazione mediante la simulazione del prezzo di cessione[4]. In altri termini si è sempre temuto che per scoraggiare i consoci del cedente a esercitare il diritto di prelazione, il cedente stesso possa esagerare il prezzo di cessione rispetto al valore effettivo della partecipazione[5].

Si è dunque proposto di ovviare al problema mediante correttivi equi, come le clausole secondo cui:

  • gli altri soci che subiscono la pretesa del socio alienante di un prezzo ritenuto spropositato possano attivare un giudizio di arbitraggio del prezzo, in modo da poter acquistare le partecipazioni proposte in vendita pagando il prezzo stabilito dall’arbitratore[6];
  • quando il prezzo proposto dal socio cedente sia maggiore del valore stabilito dal collegio di arbitraggio, la proposta si intende fatta per il prezzo pari al valore stabilito dal collegio di arbitraggio; quando il prezzo proposto dal socio cedente sia minore del valore stabilito dal collegio di arbitraggio, la proposta si intende fatta per il prezzo proposto dal proponente[7];
  • il c.d. giusto prezzo sia determinato con riferimento al valore di bilancio, a quello nominale oppure a quello risultante dalla capitalizzazione degli utili.

È pur vero che la scelta d’introdurre una clausola di prelazione con arbitraggio sul prezzo espone il socio cedente al duplice rischio di perdere un eventuale maggior prezzo del terzo buona fede e di essere obbligato a vendere comunque la partecipazione; è probabile anzi che se il prezzo finale fosse stato conosciuto dal socio alienante prima della denuntiatio, questi non avrebbe avviato il procedimento di vendita. Per evitare un simile rischio, può essere opportuno prevedere il c.d. diritto di pentimento, ossia la possibilità per il socio alienante, una volta conosciuta la determinazione dell’arbitratore, di pentirsi della propria offerta di vendita e, dunque, di revocarla. O almeno di consentire la revoca solo se la valutazione dell’arbitratore sia inferiore di almeno una certa misura percentuale rispetto al prezzo offerto dal terzo.

Ugualmente sembra opportuno prevedere un conveniente limite di tempo entro il quale debba pronunciarsi l’organo arbitrale[8], termine che non dovrà superare quello previsto per la liquidazione della quota nel caso di recesso.

E se invece il corrispettivo previsto a carico dei soci prelazionari sia simbolico, o comunque irrisorio? In questo caso, si può ipotizzare che la clausola debba essere quantomeno interpretata in modo analogo a una previsione statutaria che impedisca l’alienazione delle partecipazioni, perlomeno a titolo oneroso. Del resto, l’art. 2469, comma 2, c.c. mira a impedire che il socio rimanga “prigioniero” del proprio titolo e potrebbe consentire al socio “ingabbiato” in una pattuizione scomoda il diritto di recesso[9].

Conclusioni

Sembra dunque generalmente ammessa la prelazione impropria, sebbene all’interno dei confini piuttosto precisi. Del resto, una clausola così strutturata non è calata dall’alto, ma rappresenta il frutto dell’autonomia privata e della libera determinazione dei soci, la quale può accettare un’oscillazione aleatoria del prezzo di cessione delle quote. La “cartina al tornasole” è sempre la verifica sulle finalità della prelazione impropria, se cioè l’obiettivo sia tutelare l’interesse sociale prevalente rispetto all’istanza di massimo realizzo dalla liquidazione della quota del singolo socio. Da un punto di vista pratico, è raccomandabile disciplinare in dettaglio il funzionamento della clausola in questione, senza però perdere la dimensione generale. È pur vero infatti che «la frantumazione crea più scappatoie di quante non ne precluda»[10].


 

[1] Così S. Luoni, Patto parasociale tra problemi di forma e conseguenze in caso di inadempimento, in Giur. It., 2018, 2, 398; M. Speranzin, «Deroga» all’atto costitutivo di s.r.l. in tema di liquidazione del socio receduto e conversione della decisione in patto parasociale, in Liber Amicorum Abbadessa, Torino, 2014, p. 1959; C. Ibba, L’interpretazione delle regole contrattuali nei contratti associativi, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma?, in Atti del Convegno di Treviso, Padova, 2006, p. 275 ss.; diversamente M. Libertini, I patti parasociali nelle società non quotate. Un commento agli articoli 2341 bis e 2341 ter del codice civile, in Il nuovo diritto delle società diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Torino, 2007 p. 472, secondo il quale nelle società di capitali vige esclusivamente il criterio formale: l’eventuale accordo extra ordinem che non abbia neanche l’apparenza di delibera, ancorché voluto da tutti i soci ha esclusivamente valenza parasociale.

[2] Così Cass. civ., sez. I, 1° giugno 2017, n. 13877, in Riv. Notariato, 2017, p. 1014.

[3] M.P. D’Arezzo, Condizioni di legittimità della clausola di prelazione impropria, in Società, 1998, p. 1056; E. Paolini, Società a r.l. e clausola di prelazione impropria, in Giur. comm., 1989, II, p. 150.

[4] Trib. Milano, 17 ottobre 1996, in Foro pad., 1998, I, p. 78; App. Milano, 7 febbraio 1989, Trib. Milano, 12 febbraio 1987, Trib. Milano, 23 novembre 1988, in Giur. comm., 1990, p. 563; App. Firenze, 13 giugno 1988, in Dir. fall., 1989, II, p. 1109.

[5] A. Busani, Fari puntati sul trucco dei prezzi sovrastimati, in Il Sole-24 Ore, 2 aprile 2003.

[6] M. Di Fabio, Riforma societaria e circolazione delle partecipazioni azionarie, in Riv. Notariato, 2003, p. 831

[7] V. A. Busani, op. cit.; Trib. Alba, 14 gennaio 1998, in Giur. comm., 1989, II, p. 150.

[8] Trib. Alba, 14 gennaio 1998, cit.

[9] G. Guerrieri, Questioni aperte in tema di prelazione statutaria, Giur. comm., 2011, p. 828.

[10] E. Marmocchi, La circolazione delle partecipazioni sociali tra statuto e contratto, in Riv. Notariato, 2004, p. 63.

Questi ed altri temi sono affrontati nei Master in Business Law.

Ultima modifica il 20/01/2021

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