A cura dell'Avv. G. Cattani e dell'Avv. P. M. Paolucci

:: (estratto dal libro: "L'Esportazione di Beni Dual Use: Manuale Teorico Pratico" - Maggioli Editore in collaborazione con MELIUSform) ::

Il programma di controllo interno
In tema di controllo alle esportazioni e di relativa compliance vi sono, in estrema sintesi, quattro principi ispiratori che devono essere considerati come imperativi dalle imprese che intendono affrontare con serietà ed efficacia la problematica:

  • l'export control protegge i mercati e con essi gli esportatori, per questo deve essere inteso strutturato come un investimento a lungo termine;
  • il controllo delle esportazioni è una questione di organizzazione;
  • il management deve avere un ruolo centrale nell’imporre tale organizzazione e fungere da esempio;
  • tutte le funzioni aziendali devono comprendere e percepire il controllo delle esportazioni come necessario e utile per l’azienda.

Si tratta di semplici e concreti principi che possono ispirare pragmaticamente il management di un’azienda nell’opera di dotazione di risorse, organizzazione e know-how necessari alla strutturazione di una più o meno complessa - a seconda delle dimensioni dell’azienda – funzione di compliance che sia percepita come utile e necessaria all’interno dell’organigramma aziendale. Per le piccole e medie imprese può anche essere esternalizzata a strutture o studi di consulenza che, attraverso l’apporto integrato di professionisti nel campo giuridico, tecnologico e della non proliferazione, assicurino il compimento di quelle attività che non è possibile avere all’interno dell’azienda. Fenomeni simili sono già stati previsti da normative di settore in materia di compliance4 e consentono, con relativo impegno di risorse economiche e considerevole elasticità, di assicurare il pieno rispetto di tale normativa di settore.
E’ importante che un impresa si doti di un efficace piano di compliance. Azioni essenziali per la realizzazione pratica del piano sono la rilevazione dei rischi e la risoluzione delle conseguenti problematiche, ove possibile.
E’ possibile dividere l’indagine sul rischio in tre principali ambiti di applicazione, sulla base della tipologia di rischio investigato. Questa analisi mima la tipologia di controllo prevista dalla normativa di settore, come poi eseguito dalle competenti autorità. I controlli previsti dalla normativa del Regolamento, prevedono infatti un vaglio che possiamo definire:

  • Oggettivo, o meglio orientato sull’oggetto da esportare, per verificare che non sia tra quelli per cui la legge prevede l’autorizzazione;
  • Soggettivo, ovvero orientato sul soggetto destinatario del bene e sui rischi di diversione possibile, legati a colui che è “utilizzatore finale del bene”;
  • Geografico, dove per “geografica” si intende l’area che le merci devono raggiungere. Per alcune aree potrebbero doversi applicare norme speciali, che derogano alla normativa del Regolamento in senso restrittivo.

Il rischio che la normativa si prefigge di evitare, come detto, è il rischio proliferazione, il rischio, dunque, che determinati oggetti siano usati in modo sbagliato, giungano in territori in cui non devono arrivare e, all’interno di tali territori, nelle mani di utilizzatori finali che li impieghino impropriamente, per attuare piani di morte e distruzione di massa. Alla individuazione di tali rischi deve essere, dunque, informato il programma di compliance delle aziende esportatrici, in modo da verificare ed escludere che la transazione programmata sia in violazione delle norme del Regolamento o che, se ve ne sono gli estremi, siano osservate le procedure autorizzative previste dalla legge. Diverse sono, invece, le tipologie di rischio a cui è assoggettata l’impresa esportatrice e che devono costituire per la stessa un monito continuo. L'inosservanza delle disposizioni di legge è punibile penalmente (rischio di sanzione). I dipendenti che trascurano tali disposizioni possono subire conseguenze di carattere giudiziario e perdere il posto di lavoro (rischio di lavoro).
Alle aziende inaffidabili è impedito l'accesso alle procedure semplificate e le autorizzazioni possono essere annullate, revocate o rifiutate. Inoltre le aziende che producono beni da non potersi successivamente vendere all’utilizzatore per il quale erano state fabbricate, sopportano il rischio di doverli e svendere, nel caso si tratti di beni difficilmente fungibili. Si aggiunga a ciò l’eventuale pregiudizio economico relativo ai danni contrattuali per la impossibilità di adempiere al contratto sottoscritto, ove il contratto stesso non sia stato redatto in modo da coprire il rischio di tale accadimento. I costi legali relativi a tutta la procedura, inclusa quella sanzionatoria, devono essere aggiunti agli altri pregiudizi elencati (rischio economico).
Le aziende che violano la normativa del Regolamento possono essere soggette a conseguenze dannose sul piano reputazionale e vedersi revocare le autorizzazioni ricevute dalle autorità competenti, a seguito della violazione compiuta (rischio reputazionale).
Ciò premesso, come detto, il sistema dei controlli all’esportazione di beni duali inizia certamente all’interno della ditta stessa.
Nel nostro Paese tuttavia, deve ancora molto crescere la cultura del controllo all’interno dell’azienda, sia in relazione alla fase che precede le operazioni di esportazione (quella antecedente alla stipula del contratto) sia in relazione alle operazioni successive alla spedizione, comprendenti l’arrivo a destino e l’effettiva utilizzazione finale degli articoli esportati, nel luogo dichiarato dal cliente straniero.
Di origine statunitense, l’Internal Control Programme (di seguito anche “ICP”), ormai molto diffuso negli Stati Membri UE, viene definito: “programme of consciousness”, dove “consciousness” sta per “consapevolezza”. La ditta, infatti, è chiamata, in primo luogo, ad essere con-sapevole, insieme alle Autorità del proprio paese, e come primo attore in causa, della correttezza delle proprie attività: una correttezza non tanto economica o tecnica, ma etica, per la quale decide di non boicottare né vanificare gli sforzi compiuti dalla propria nazione e da tutte quelle che, unite ad essa, lottano per il mantenimento della pace, anche mediante il contrasto al terrorismo ed alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. In secondo luogo, la ditta, e ciò a tutela dei suoi stessi interessi, deve essere il primo controllore di se stessa e delle sue operazioni commerciali. Gli esportatori con un po’ di esperienza sanno bene che, nonostante gli affari presentino sempre qualche rischio in quanto tali, non giova affatto alla ditta lanciarsi in quelli che si rivelano essere alla fine totalmente incerti, attirando la loro attenzione solo perché il pagamento della merce sembra ingente ed immediato o perché, addirittura, in parte anticipato alla stipula del contratto. Infatti, qualora l’Autorità Designata riceva una domanda di esportazione e riscontri la totale inaffidabilità dell’utilizzatore finale, con un conseguente alto rischio di diversione d’uso per le merci oggetto della richiesta di esportazione medesima, essa non può far altro che rigettare l’istanza.
Un valido programma di controllo interno può essere realizzato dalla ditta a costo zero o, comunque, molto contenuto. Alcuni Stati membri dell’UE hanno stilato un ICP a livello di Autorità Nazionale per il Controllo delle Esportazioni di Beni Duali e lo hanno imposto per legge a tutte le loro aziende del settore. Altri Stati membri hanno reso obbligatorio l’ICP per ogni compagnia nazionale, che deve poi inviarlo per una valutazione tecnica all’Autorità Designata, che ne certifica la validità eventuale. In Italia l’ICP è attualmente solo consigliato. Un buon Programma Interno deve, innanzitutto, creare una serie di controlli su tutte le informazioni disponibili riguardo a ciascuna delle operazioni commerciali che la ditta intende intraprendere e ciò a partire dall’inizio dei contatti con il cliente straniero e non dopo la stipula del contratto o poco prima.
In secondo luogo, esso deve monitorare tutte le attività interne alla ditta stessa, volte all’espletamento delle procedure necessarie per l’esportazione. In terzo luogo, il programma, per quanto possibile all’azienda, deve seguire l’arrivo a destino del bene e controllare che esso sia effettivamente impiegato per l’uso dichiarato, nel luogo prescritto dall’autorizzazione, anche mediante una visita in loco, se necessario e/o possibile. Ogni ditta può organizzarsi come vuole e, una volta messo in piedi il meccanismo, un sistema di controllo interno non presenta particolari difficoltà di applicazione. E’, però, indispensabile conoscere e tenere presenti alcuni punti fondamentali che è possibile riassumere come segue: Il cliente straniero può contattare la ditta in vari modi (direttamente, ad una fiera, per interposta persona tramite un mediatore, etc.), ma dovrà, comunque, rivelarsi affidabile, innanzitutto, considerando:

  1. la congruità tra la richiesta di merce presentata alla ditta italiana e le attività di produzione dichiarate;
  2. la congruità tra numero degli articoli richiesti o tra la quantità di articoli richiesta e le attività dichiarate.
  3. l’adeguatezza tra merce richiesta e prezzo che il cliente intende pagare: se è vero che il prezzo viene stabilito da chi vende, può essere altrettanto vero, a volte, che chi compra è disposto a pagare “di più” o “molto di più”, pur di ottenere ciò che necessita;
  4. l’eccessiva pressione del cliente nei confronti della ditta italiana per ottenere con la massima velocità la merce, magari minacciando continuamente la rottura delle trattative o la rescissione del contratto. La domanda di esportazione va inoltrata all’Autorità competente, una volta ottenuto dal cliente un ordine di acquisto o dopo la stipula di un contratto. Essa richiede determinati tempi tecnici per essere esaminata. Il cliente straniero lo sa perfettamente. Nel suo paese le leggi sono diverse, ma seguono il medesimo iter. Una fretta smisurata può costituire un indicatore sospetto;
  5. la normalità dei dettagli concernenti l’ubicazione della sede del cliente: come tutte le aziende, deve avere un indirizzo che non sia una semplice casella postale. Se possibile, se la ditta italiana ha filiali nel paese di appartenenza del cliente o ha degli incaricati, dovrebbe inviare qualcuno a verificare di persona o a compiere delle ricerche sull’indirizzo stesso o sulla conoscenza che del cliente hanno le locali associazioni del commercio. Qualche indirizzo dichiarato in passato si è rivelato quello di un negozio di pochi metri quadrati, preso in affitto, o di una camera di una pensione o di un negozio di copertura.

E’ da tenere sempre presente che il cliente straniero non deve essere restìo a parlare della propria attività o troppo vago nel definirla. Dovrebbe anche fornirne una documentazione adeguata. E’ necessario assicurarsi che la merce richiesta sia congrua con le attività produttive illustrate in eventuali dépliant o altro materiale scritto. Il cliente straniero può essere:

  • un acquirente non destinatario della merce che viene esportata in un dato Paese;
  • può essere, invece, l’acquirente che ne è anche il destinatario in un certo paese e che la rivenderà, in qualità di distributore, sempre all’interno della sua nazione, ad uno o più utilizzatori finali;
  • oppure può essere, oltre che destinatario della merce esportata dalla ditta italiana, anche l’utilizzatore finale della stessa.

Se, dunque, il cliente non è anche l’utilizzatore finale, i controlli della ditta dovrebbero essere estesi anche a tutte le altre parti implicate nell’operazione commerciale, ove sia possibile “raggiungerle” (vale a dire, per esempio, che una ditta italiana con filiali estere può essere in grado di ottenere informazioni localmente, in una data nazione, sebbene non abbia contatti diretti con tutte le parti coinvolte in una certa operazione commerciale). Ma a volte, semplicemente valutando con attenzione quanto detto o scritto dal cliente straniero sui possibili destinatari e utilizzatori finali, ci si può accorgere di qualche dettaglio poco chiaro o che lascia delle perplessità (e ciò può accadere anche senza muoversi dalla propria sede italiana, conversando col cliente o leggendo qualche sua lettera o comunicazione).
L’arrivo a destino del prodotto va sempre controllato, assicurandosi che effettivamente il prodotto abbia raggiunto il luogo indicato per il suo utilizzo finale (se il destinatario è anche l’utilizzatore finale della merce) e non sia stato, invece, deviato altrove o vengano addotte scuse palesemente pretestuose a che esso venga consegnato o collocato nel luogo di utilizzazione finale. Poiché l’azienda italiana, in virtù delle clausole contenute nell’autorizzazione stessa, dovrà relazionare al Ministero, con puntualità e a scadenze fisse, riguardo all’arrivo a destino della sua merce, essa dovrà sempre assicurarsi che i suoi articoli siano davvero pervenuti e siano impiegati nel luogo di utilizzo dichiarato. Il sito di utilizzo deve essere sempre indicato nel contratto. La ditta italiana deve, per quanto possibile, controllare che si tratti di una zona congrua con le attività dichiarate dal cliente straniero. Non sarebbe pensabile - ed è già capitato - che, per esempio, un certo prodotto chimico, utile per la concia delle pelli, che necessita un luogo spazioso ed aperto e grandi capannoni per la conservazione delle stesse, una volta trattate, venga, invece, impiegato nel solito negozio di cui sopra, largo appena pochi metri quadrati.
Quando si tratta di un’esportazione di grande valore economico e/o tecnologico, la ditta esportatrice dovrebbe poter avere sul luogo di utilizzo un proprio delegato, che controlli l’effettivo arrivo a destino dei beni e l’utilizzo degli stessi, in conformità all’uso dichiarato. L’utilizzo finale di un prodotto non deve differire da quanto dichiarato dal cliente. L’uso indicato nel contratto deve essere uguale a quello indicato nel certificato di uso finale. Nei dépliant forniti dal cliente straniero sulle proprie attività, queste non devono contrastare con l’uso finale che è stato dichiarato per il prodotto fornito. Nel caso si riscontri o sospetti che i beni spediti siano utilizzati diversamente da quanto dichiarato, l’esportatore è tenuto ad informarne l’Autorità Designata.
Già da molti anni all’estero, soprattutto in area anglosassone, le ditte più piccole o che si sentono meno preparate ad organizzare da sole un loro controllo interno si rivolgono alle proprie associazioni di categoria o alle locali camere di commercio, per ottenere consulenza in materia o inviano un proprio addetto a frequentare appositi corsi, che tali istituzioni organizzano correntemente, a vantaggio dei loro associati. Non risulta che in Italia esistano iniziative simili, ma, qualora ve ne sia richiesta, sarà sempre possibile organizzarle, magari con una collaborazione mista, tra MISE ed alcune associazioni di categoria.
Per quanto concerne l’Autorità Designata per il Controllo delle Esportazioni (istituita all’interno del MISE), al momento in cui una ditta inoltra un’istanza di esportazione e dichiara di avere anche un programma interno di controllo sulle proprie attività (interno o esterno all’azienda), che ha già valutato l’operazione di esportazione - possibilmente con un rapporto scritto allegato alla domanda - questo non può che aiutare la valutazione dell’istanza ed assicurare tempi più veloci di valutazione, nel caso in cui la pre-valutazione compiuta dall’azienda copra tutti gli elementi di valutazione e le aree di rischio soggette ad esame da parte delle autorità competenti. Tutto questo, inoltre, contribuisce certamente a creare un clima di collaborazione e di fiducia tra le istituzioni e l’azienda esportatrice, il che facilita il compito delle Autorità preposte al controllo e può velocizzare i tempi di autorizzazione di esportazioni rispettose delle norme del Regolamento.


[4] A questo proposito si vedano: (i) le “Disposizioni di vigilanza in materia di conformità (compliance)” n.  688006 di Banca d’Italia del 10 luglio 2007; (ii) il “Regolamento in materia di organizzazione e procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio” adottato dalla Banca d'Italia e dalla Consob con provvedimento del 29 ottobre 2007 e successivamente modificato con atti congiunti Banca d' Italia/Consob del 9 maggio 2012 e del 25 luglio 2012, e (iii) il Regolamento ISVAP n. 20 del 26 marzo 2008 recante disposizioni in materia di controlli interni, gestione dei rischi, compliance. Tali normative di vigilanza recepiscono i principi guida sulla materia pubblicati nel 2005 dal Comitato di Basilea


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