Per credito inesistente deve intendersi quello in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è “reale”) e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante l’attività di liquidazione e controllo automatizzato. Lo ha affermato la Cassazione con le sentenze nn. 34444 e 34445, depositate il 16 novembre 2021.

A cura dell'Avv. Sara Mecca, Avvocato in Contenzioso Tributario, Penale Tributario, Diritto Penale dell’Economia e Indagini Patrimoniali, Sicurezza Finanziaria e Docente dei nostri Executive Master in area Lex & Tax


Per credito inesistente deve intendersi quello in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è “reale”) e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante l’attività di liquidazione e controllo automatizzato. Lo ha affermato la Cassazione con le sentenze nn. 34444 e 34445, depositate il 16 novembre 2021. Peraltro, tale principio affermato in sede amministrativa, è stato recepito anche dalla Cassazione penale che, con la sentenza n. 7615 del 3 marzo 2022, ha chiarito che il reato di indebita compensazione si articola in due fattispecie diverse a seconda che il credito sia non spettante o inesistente.

La normativa

Prima di analizzare le conclusioni della Corte, si ricorda brevemente che i crediti d’imposta operano in diminuzione delle imposte a debito. Rappresentano, quindi, uno sconto sulle imposte da pagare. La compensazione è una particolare applicazione, in ambito tributario, del principio generale stabilito dall’art. 1241 del Codice civile, secondo il quale:

“Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”.

Nella compensazione fiscale, i soggetti interessati sono, da un lato, il Fisco, che attraverso gli organi dell’Amministrazione finanziaria esercita le proprie pretese impositive, e, dall’altro lato, il contribuente, che fa valere le poste a proprio credito e le pone in compensazione con i suoi debiti fiscali. Ad esempio, nel frequente caso di credito Iva si detrae dall’importo a debito la somma dell’Iva a credito maturata nel periodo considerato: in concreto, dall’ammontare dell’Iva incassata sulle vendite si sottrae quella pagata sugli acquisti e si paga solo la differenza. Quando l’Amministrazione finanziaria ritiene che il contribuente abbia compensato un debito con un credito d’imposta inesistente o non spettante invia al contribuente uno specifico atto. In particolare, ai sensi dell’articolo 27, comma 16, del D.L. n. 185/2008, l’atto di recupero per l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti deve essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo. Per quanto riguarda i crediti non spettanti i termini di accertamento sono, invece, quelli ordinari (quarto anno o quinto anno dal periodo di imposta 2016). Quanto invece ai profili sanzionatori, l’articolo 13 del D.Lgs. n. 471/97 - così come modificato dal D.Lgs. n. 158/2015 - prevede:

  • per i crediti non spettanti una sanzione del 30% di ogni importo non versato a seguito della compensazione;
  • per i crediti inesistenti una sanzione che va dal 100 al 200 per cento della misura dei crediti compensati.

Ai fini penali, poi, l’articolo 10-quater del D.lgs. n. 74/00 punisce chiunque non versa, per un importo annuo superiore a 50.000 euro, le somme dovute a titolo di imposta, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’art. 17, D.lgs. n. 241/1997, crediti non spettanti (comma 1) o inesistenti (comma 2). A sua volta quest’ultima norma stabilisce che:

“I contribuenti titolari di partita IVA eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all'INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. Tale compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva”.

L’utilizzo in compensazione di crediti non spettanti è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, mentre quella di crediti inesistenti con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Sia ai fini penali che amministrativi è dunque importante, stante il differente trattamento sanzionatorio, comprendere se si è in presenza di un credito inesistente o non spettante.

Le pronunce della Cassazione

Con le sentenze n. 34444 e 34445, entrambe depositate il 16 novembre 2021, la Cassazione ha finalmente chiarito - ponendosi espressamente in contrasto con i precedenti della stessa Corte (si veda Cass. nn. 101112/2017, 19237/2017, 24093/2020 e 354/2021) - che nel nostro ordinamento sussiste la dicotomia tra credito non spettante e credito inesistente. I Supremi giudici rilevano che la definizione di credito inesistente si desume dall’articolo 13, comma 5, del D.Lgs. 471/97, come novellato nel 2015, secondo cui si considera tale il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile attraverso i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del Dpr 600/1973 e all’articolo 54-bis del Dpr 633/1972. Devono dunque ricorrere entrambi i requisiti per considerare inesistente il credito: deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente); l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria.

Ne deriva, a contrario, che se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante. In sintesi, per poter qualificare un credito come inesistente è necessario che lo stesso sia ancorato ad una situazione non reale o non vera, “ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza”. Non è un caso che il più ampio termine per la notifica dell’atto di recupero riguardi necessariamente una fattispecie più ristretta, evidentemente ritenuta più grave. Pertanto, qualora la non spettanza del credito d’imposta sia suscettibile di essere rilevata attraverso l’attività di controllo automatizzato, in conseguenza del confronto tra i dati esposti in dichiarazione e i documenti conservati ed esibiti dal contribuente, siamo di fronte ad un credito esistente ma non spettante; qualora viceversa il credito d’imposta sia effettivamente non reale (ad esempio perché sorretto da documenti falsi, ancorché indicato in dichiarazione), si può considerare inesistente.

La posizione della Cassazione penale

Anche la Cassazione penale ha confermato la dicotomia tra le due tipologie di credito. In particolare, quanto all’elemento oggettivo, richiamando proprio le pronunce della Cassazione tributaria, la Corte afferma che per il credito inesistente devono ricorrere due requisiti:

1) mancare il presupposto costitutivo (il credito non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente);

2) l’inesistenza non deve essere riscontrabile con controlli automatizzati o formali dei dati in anagrafe tributaria.

Ne deriva, a contrario, che se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante. In sostanza, quando la non spettanza del credito è rilevabile con l’attività di controllo automatizzato o formale, si tratta di un credito esistente ma non spettante. Se invece, il credito di imposta è non reale, ad esempio perché sorretto da documenti falsi, è inesistente. La diversità delle due ipotesi incide anche sull’elemento soggettivo del reato. L’inesistenza del credito costituisce di per sé, salvo prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di bilanciare i propri debiti verso l'Erario con una posta creditoria artificiosamente creata; nel caso in cui vengano dedotti dei crediti "non spettanti" occorre, invece, provare la consapevolezza da parte del contribuente che tali crediti non siano utilizzabili in sede compensativa.

Conclusioni

Le pronunce appaiono interessanti poiché affermano un principio che, per quanto potrebbe apparire scontato, evidentemente così non era, viste le numerose sentenze che (incredibilmente) ritenevano priva di senso logico la distinzione tra credito “non spettante” e “inesistente”. Incredibilmente, nonostante il tenore letterale della normativa, la Cassazione aveva ritenuto tale distinzione concettuale tra le due ipotesi di credito priva di ragione. Impostazione finalmente superata con le sentenze in commento.

Ultima modifica il 26/05/2022