Il profondo connubio tra processi formativi ed organizzativi non sempre trova riscontro nella realtà: ciò comporta una serie di questioni nel momento in cui l’intento della formazione diventa un lavoro sul cambiamento dei reali processi di lavoro. 

A cura del Dott. Daniele De Robbio e della Dott.ssa Elena Cesari partecipanti dell'Executive Master in HR Psicologi.


Secondo Piccardo (2003) l’atto del fare formazione è equivalente a quello dell’agire organizzativamente, identificandosi con alcune azioni organizzative. Tale tesi sostenuta dell’autrice prende spunto da Weick (1993, 1995), che propone una concezione di organizzazione (organization) come “organizzare” (organizing):

«ovvero come azione organizzativa processuale, come agire organizzativo, come corso di azioni e decisioni volto a procurare consapevolmente ed intenzionalmente l’esercizio di quelle funzioni che assicurano un sistema di regole che rende possibile l’azione collettiva concertata e controllata» (Piccardo, 2003, p. 138).

In particolare, alla formazione e allo sviluppo organizzativo sono deputate azioni/funzioni organizzative, quali:

  • La formazione dei neoassunti, dunque il sostegno ai loro percorsi di socializzazione;
  • La patrimonializzazione, divulgazione e rinnovamento delle competenze distintive (compito principale dell’ambito formativo);
  • Promuovere il cambiamento, azione insita nell’azione formatrice, che spesso risulta essere un modo per “vendere” la necessità di cambiamento ed agevolarlo nei contesi.

Partendo da questa considerazione, appare evidente come tali processi organizzativi siano tutti attinenti all’organizzare nel senso di “dare forma” - quindi di formare - sancendo anche a livello semantico questa sovrapposizione (almeno parziale) tra i due costrutti. D’altronde, questa compenetrazione tra organizzazione e formazione è sottolineata dal fatto che tali compiti appena accennati non nascono con la formalizzazione (ed in un certo senso esternalizzazione) dei processi formativi: essi, infatti, sono sempre stati presenti e soddisfatti in ogni apparato organizzativo nel corso della loro vita evolutiva.

Questo profondo connubio tra processi formativi ed organizzativi, tuttavia, non sempre trova riscontro nella realtà: ciò comporta una serie di questioni nel momento in cui l’intento della formazione diventa un lavoro sul cambiamento dei reali processi di lavoro. Capita spesso, infatti, che la formazione risulti sganciata dalla realtà organizzativa, non tenendo conto dei processi quotidiani in atto nell’organizzazione. Una formazione di questo tipo è quella calata dall’alto, senza tenere conto della realtà in cui si dovrebbe declinare, facendo emergere fortemente quanto siano esternalizzati tali processi.

Questo distacco causa una difficoltà, se non un’impossibilità nel trasferire efficacemente i nuovi contenuti e le nuove competenze acquisiti nel contesto lavorativo, rendendo così impossibile la modifica e l’aggiornamento di vecchi processi di lavoro ormai obsoleti. Da questo emerge una possibile visione della formazione con qualcosa di astratto, teorico e decisamente poco pratico: una sorta di formazione apparente e fine a sé stessa, messa in atto per investire i fondi che si hanno a disposizione.

La soluzione a questa questione, secondo Piccardo (2003), risiederebbe proprio nell’evitare tale eccessiva esternalizzazione, questa calata dall’alto del processo formativo. Ciò dovrebbe partire dall’interno dei giochi reali, dagli attori coinvolti in un’ottica dell’empowering degli stessi, che siano dunque profondamente partecipi in tutti i momenti dell’agire formativo, come lo sono in quello organizzativo. In quest’ottica il formatore passa dall’essere un venditore di contenuti, dall’essere un semplice docente, all’essere un facilitatore, un consulente di processo, che si immerge nelle dinamiche presenti analizzandole e ridiscutendole insieme agli attori, impegnandosi quindi nella formazione sia individuale che organizzativa.

In tale contesto teorico prende forma il modello di formazione narrativo-critico-riflessivo, che può essere considerato anche come un intervento di sviluppo organizzativo: esso si basa sul paradigma simbolico-antropologico (Burrell & Morgan, 1979; Meyer & Rowan, 1986; Piccardo & Benozzo, 1996; Unger, 1987), dove l’intervento è “organizzazione praticata”, assumendo la metafora dell’organizzazione come “cultura”. Secondo quest’ottica la formazione non deve “vendere”, sedurre (nell’accezione di “condurre a sé”) i destinatari, creando quindi distanza sulla base delle lacune di questi ultimi, bensì deve partire dalle risorse portate dai destinatari stessi, interrogando, esplicitando e lasciando che venga valutato il “sapere pratico” (Vino, 2001) e le “teorie-in-uso” (Argyris & Schön, 1978), non considerando ciò come un vincolo o un punto di partenza, ma prendendosi la libertà di decidere cosa tenere, valorizzare e aggiungere, e cosa è bene, invece, decostruire e disapprendere (Piccardo, 2003). Tutto questo è possibile solo mantenendo fede ad una visione di organizzazione che rifiuta il suprematismo del membro sul sistema o viceversa, ma che invece li tiene insieme nel contesto formativo. Risulta pericoloso, infatti, considerare come bisogni di formazione solo quelli relativi alle persone o solo quelli relativi al processo tecnico di lavoro: questi due aspetti vanno considerati unitamente, dato che la loro separazione rischia di creare una formazione apparente che ha poca incidenza sul vissuto organizzativo (Maggi, 1991).

In sintesi

«la progettazione di un nuovo corso di azioni e di decisioni è il contenuto stesso e l’obiettivo dell’azione formativa per realizzare il quale i responsabili del processo possono accedere a competenze esterne per farle proprie […], competenze che possono diventare oggetto di decostruzione, acquisizione, adattamento o appropriazione attraverso il processo di imitazione e ristrutturazione» (Piccardo, 2003, p. 143).

In quest’ottica si può dire che contenuto ed obiettivo di tale modello di formazione è l’analisi accurata dei processi di lavoro posti sotto esame, svolti in maniera collettiva con il possibile supporto del “docente/consulente”. Partendo dai risultati di questa accurata analisi può avvenire la riprogettazione del processo stesso, del corso di azioni e decisioni sia individuali che collettive. In tal modo, viene meno il concetto di fase dell’azione formativa, dato che in questo caso l’analisi dei bisogni non la precede, ma vi si intreccia correndo di pari passo. Nel corso del processo di formazione, infatti, possono emergere nuovi bisogni che portano al cambiamento di ulteriori parti dello stesso, dopo un’analisi dei risvolti relativi ai membri coinvolti. Lo stesso vale per la valutazione: essa non ha luogo dopo l’intervento, ma durante, e non può essere affidata ad esterni, ma solo ai membri interni che vivono il cambiamento (così che possano verificare i frutti relativi dell’interrogazione critica e riflessiva del processo esaminato, semplicemente svolgendolo) e ai clienti interni ed esterni che ne subiscono gli effetti.


Bibliografia

  • Argyris, C. & Schön, D. A. (1978). Organizational learning: A theory of action perspective. Reading: Addison-Wesley.
  • Burrell, G. & Morgan, G. (1979). Sociological paradigms and organisational analysis: Elements of the sociology of corporate life. London: Heineman Educational Books.
  • Converso, D. & Piccardo, C. (Edd.). (2003). Il profitto dell'empowerment: Formazione e sviluppo organizzativo nelle imprese non profit. Milano: Raffaello Cortina.
  • Maggi, B. (1991). Le concezioni di formazione: un quadro per il confronto. In F. Cavallo e B. Maggi (Edd.), La formazione: Concezioni a confronto. Milano: ETAS.
  • Meyer, J. & Rowan, B. (1986). Le organizzazioni istituzionalizzate: la struttura formale come mito e cerimonia. In P. Gagliardi (Ed.), Le imprese come culture: Nuove prospettive di analisi organizzativa. Torino: ISEDI.
  • Piccardo, C. (2003). Formazione per l'empowerment individuale e organizzativo. In D. Converso e C. Piccardo (Edd.), Il profitto dell'empowerment: Formazione e sviluppo organizzativo nelle imprese non profit (pp. 113–167). Milano: Raffaello Cortina.
  • Piccardo, C. & Benozzo, A. (1996). Etnografia organizzativa: Una proposta di metodo per l'analisi delle organizzazioni come culture. Milano: Raffaello Cortina.
  • Unger, R. M. (1987). False necessity: Anti-necessitarian social theory in the service of radical democracy. Cambridge: Cambridge University Press.
  • Vino, A. (2001). Sapere pratico: Competenze per l'azione, apprendimento, progettazione organizzativa. Milano: Guerini e Associati.
  • Weick, K. E. (1993). The Collapse of Sensemaking in Organizations: The Mann Gulch Disaster. Administrative Science Quarterly, 38(4), 628. https://doi.org/10.2307/2393339 
  • ​Weick, K. E. (1995). Sensemaking in organizations. Thousand Oaks: SAGE Publications.

Ultima modifica il 06/05/2022