A cura del Dott. Daniele De Robbio e della Dott.ssa Elena Cesari, partecipanti dell'Executive Master in HR Psicologi

«Il counselling è un processo interattivo di apprendimento che si stabilisce tra un counselor e un cliente, finalizzato ad aiutare la persona nella gestione dei propri problemi utilizzando le proprie risorse personali» (Costa, Giannecchini, 2019). È questa una delle definizioni di quel processo definito “counselling”, termine ricavato dal verbo inglese “counsel”, ovvero consigliare. L’aspetto più rilevante all’interno del processo di counselling, tuttavia, non è quello del consiglio che viene offerto, ma dell’ascolto: attraverso le proprie capacità, infatti, il counselor può orientare e sostenere il cliente nel fronteggiamento di un particolare momento di disagio, facilitandolo nelle proprie capacità decisionali e promuovendo l’attivazione di risorse e potenzialità creative e risolutive.

Spesso il counselling viene erroneamente confuso con il processo di mentoring o con il coaching; tuttavia, essi tra di loro si differenziano: il primo è un processo che vede il soggetto con esperienza accompagnarne uno giovane ed inesperto all’interno dell’azienda al fine sia di guidarlo nell’inserimento sia di assicurare una diretta trasmissione di informazioni, impostazioni e norme utili sul luogo di lavoro. Il secondo, invece, è un’attività che ha lo scopo di promuovere nel soggetto un processo di sviluppo personale, innovazione e aggiornamento al fine di ottenere una performance più efficace possibile.

Il counselling, pur nascendo come attività di orientamento per i soldati rientrati dalla guerra, nel corso del tempo ha subito uno sviluppo tale da essere utilizzato per molteplici scopi, fra i quali la psicoterapia, l’orientamento scolastico e l’orientamento professionale.

Il counselling come forma di relazione professionale d’aiuto è stato introdotto nel 1942 da Carl Rogers. Per quest’ultimo il counselling si differenzia dalle psicoterapie tradizionali in quanto non si fonda su teorie a priori della personalità, bensì si configura come una forma di relazione terapeutica basata sul metodo del colloquio non direttivo «centrato sul cliente», ossia che parte dal presupposto che è il soggetto trattato a conoscere nel dettaglio i propri problemi, portando quindi il professionista a centrarsi su di lui per affrontarli (Gheno, 2005).

Spesso, le posizioni del cliente sono suddivisibili in due categorie, e sono espressione del tipo di domanda portata al counselor e del tipo di intervento richiesto allo stesso:

  • Il cliente richiede supporto in quanto avverte un senso di disagio riferito a contenuti più o meno precisi (spesso di natura esistenziale) ed appare confuso, disorientato. In questo caso è richiesto un intervento di orientamento, sviluppando una cosiddetta prospettiva «soft» della consulenza, orientata verso la sfera emotiva, psicologica del soggetto. Questo intervento richiede che il counselor si ponga come esperto di processo e intervenga tramite l’ascolto, il rispecchiamento ed il suggerimento di metodo (Ibidem);
  • Il cliente porta un problema specifico da risolvere e chiede un consiglio che necessita di informazioni puntuali e del giusto expertise per poter affrontare al meglio la problematica. In questa seconda eventualità è invece richiesto un intervento definito «hard», riferito maggiormente alle tecniche ed ai comportamenti da attuare nella situazione puntuale del cliente, circa la quale il professionista necessità dei know-how ed esperienza relativi. In questo caso al counselor è richiesto di assumere le forme di expertise tramite la raccolta di informazioni, l’analisi e la diagnosi, l’individuazione delle alternative possibili e l’indicazione dell’opzione migliore (Ibidem).

Nel colloquio di empowerment si integrano queste due dimensioni sopra descritte, proponendo un approccio hard ad una richiesta soft, tentando di rispondere con maggiore incisività ed efficacia all’esigenza posta. In questo tipo di colloquio, infatti, il counselor si pone l’obiettivo di facilitare l’apertura a nuove possibilità del soggetto, facendolo progredire nel suo percorso di empowerment valorizzando la sua dimensione del desiderio, l’individuazione dei nuclei intorno ai quali sviluppare il processo di empowerment e l’utilizzo di metodologie piò o meno specifiche.

L’obiettivo da porsi è, dunque, il primo interrogativo a cui trovare una risposta: non avere uno scopo chiaro da raggiungere potrebbe rivelarsi problematico all’interno della relazione, il cui rapporto è sempre diadico. Inoltre, si rivelano fondamentali per la buona riuscita del processo alcuni atteggiamenti portati avanti dal counselor:

  • Mostrarsi il più autentici e coerenti possibili con il cliente;
  • Favorire un clima di accoglienza e di dialogo, senza giudizi o pregiudizi;
  • Non sostituirsi al cliente e non scegliere per lui;
  • Empatizzare ed ascoltare mantenendo coscienza del proprio ruolo.

Il processo del counselling è caratterizzato generalmente per una durata breve e l’ambito organizzativo non fa eccezione; per comodità, può essere suddiviso in diverse fasi:

  1. Definire il problema (chi, cosa, dove, quando e come) e accordarsi sull’obiettivo;
  2. Mettere in atto una strategia;
  3. Aggiustare il tiro;
  4. Chiudere l’intervento e rimandare feedback di merito al cliente.

All’interno di ognuna di queste fasi, vengono messe in atto domande e tecniche di problem-solving strategico; esse hanno lo scopo di aiutare e facilitare il processo, mantenendo il cliente in un ruolo attivo e sostenendolo nella ricerca e nel raggiungimento dell’obiettivo.

È possibile – se non probabile – che il cliente, in particolar modo all’inizio del processo, metta in atto delle resistenze; esse possono essere relative all’obiettivo che bisogna raggiungere, al contesto all’interno del quale ci si trova, al tipo di comunicazione che si utilizza e al tipo di relazione che si instaura. È importante che si lavori dunque su ognuno di questi aspetti all’interno del processo, affinché si possa giungere insieme all’obiettivo concordato. A questo riguardo, infatti, James Cash Penney diceva: “Il miglior lavoro di squadra nasce dalle persone che lavorano in modo indipendente verso un obiettivo comune”.

 

Bibliografia

Nardone, G. (2009). Problem solving strategico da tasca. Ponte alle Grazie.

Nardone, G., D’Andrea S. (2015). Il colloquio strategico in azienda. Ponte alle Grazie.

Rogers, E. S., Chamberlin, J., Ellison, M. L. & Crean, T. (1997). A consumer-constructed scale to measure empowerment among users of mental health services. Psychiatric services (Washington, D.C.), 48(8), 1042–1047. https://doi.org/10.1176/ps.48.8.1042  

Gheno, S. (2005). L'uso della forza: Il self empowerment nel lavoro psicosociale e comunitario. Milano: McGraw-Hill.

Costa, G., Giannecchini, M. (2019). Risorse umane: persone, relazioni e valore. Milano: The McGraw-Hill Education.

Piccardo, C. (2003). Formazione per l'empowerment individuale e organizzativo. In D. Converso e C. Piccardo (Edd.), Il profitto dell'empowerment: Formazione e sviluppo organizzativo nelle imprese non profit (pp. 113–167). Milano: Raffaello Cortina.

Converso, D. & Piccardo, C. (Edd.). (2003). Il profitto dell'empowerment: Formazione e sviluppo organizzativo nelle imprese non profit. Milano: Raffaello Cortina

Ultima modifica il 23/08/2022