A cura di A. Prezioso (partecipante del Master in Giurista d’Impresa)

L’arbitrato, disciplinato dagli artt. 806 e ss. c.p.c., rappresenta un efficace mezzo di risoluzione delle controversie e, nel contempo, un valido strumento di valorizzazione dell’autonomia delle parti di un rapporto giuridico1. Esso configura una deroga al principio della riserva statale di giurisdizione, basata sulla scelta concordata tra le parti di deferire a soggetti privati2 la decisione di controversie insorte o future, mediante l’emissione di un lodo arbitrale.

Tale facoltà trova fondamento nel combinato disposto tra l’art. 24 della Costituzione e l’art. 1322 c.c.; l’autonomia delle parti di costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici patrimoniali, letta alla luce del diritto costituzionale di difesa, consente, infatti, di calibrare la scelta delle forme di tutela dei propri diritti a seconda delle esigenze concrete. In concreto, la scelta delle parti di un sistema di risoluzione delle liti alternativo alla giurisdizione dello Stato è per lo più dettata dalle esigenze di una più rapida definizione delle controversie3 stesse e del loro esame da parte di soggetti dotati di specifiche competenze (si pensi, sotto tale ultimo profilo, alla materia societaria e a quella dei lavori pubblici).

Ciò premesso, occorre ora individuare quali controversie possono essere deferite ad arbitri; a tal fine, rileva l’art. 806 c.p.c. che - attraverso una limitazione dell’autonomia delle parti - esclude quelle che hanno ad oggetto diritti indisponibili nonché quelle che per previsione espressa di legge sono devolute al giudice ordinario perché́ vietate, in modo esplicito, alla cognizione degli arbitri. Sono, pertanto, sottratte agli arbitri - e riservate alla giurisdizione statale - le controversie su diritti connessi a status e diritti che non possono essere oggetto di alienazione, cessione, rinuncia o transazione. Quanto al diritto del lavoro, è possibile il deferimento ad arbitri solo in virtù di espressa previsione contenuta nella legge o nei contratti collettivi.

I successivi artt. 807 e 808 individuano la fonte del potere degli arbitri, rappresentata dalla convenzione di arbitrato, contenuta alternativamente in un compromesso ovvero in una clausola compromissoria. In sintesi, il compromesso (art. 807) è un contratto di diritto privato attraverso il quale le parti convengono di affidare ad uno o più soggetti privati (arbitri) l’incarico di decidere una controversia già sorta tra di esse.

Il compromesso4 deve essere stipulato per iscritto, a pena di nullità, e contenere:

  1. la determinazione dell’oggetto della controversia;
  2. la nomina degli arbitri o l’indicazione del loro numero e delle relative modalità di nomina;
  3. la sede dell’arbitrato nel territorio della Repubblica e la lingua dell’arbitrato;
  4. le norme che gli arbitri devono osservare nel procedimento; dette norme possono essere contenute anche in un atto scritto separato, purchè anteriore all’inizio del giudizio arbitrale.

La clausola compromissoria5 (art. 808) è una pattuizione inserita in un contratto o in un atto separato con cui le parti del rapporto contrattuale stabiliscono che le controversie afferenti al rapporto stesso siano decise da arbitri, purchè ovviamente si tratti di controversie che possono formare oggetto di convenzione di arbitrato. Essa non differisce in alcun modo dal compromesso sotto il profilo della forma, anch’essa scritta a pena di nullità, della funzione e della causa, atteso che le parti tendono a raggiungere il medesimo scopo, ossia l’effetto processuale di sottrarre la cognizione di una controversia alla giurisdizione ordinaria e di rimetterla, di conseguenza, ad arbitri; soltanto che in tal caso, a differenza di quanto avviene per il compromesso, la lite non è ancora sorta, ma è futura e soltanto eventuale. In altri termini, come sostenuto da autorevole dottrina6, la clausola compromissoria differisce dal compromesso in quanto non demanda a posteriori agli arbitri la decisione di controversie già sorte, identificabili e identificate come tali, bensì stabilisce a priori (cioè preventivamente e in ipotesi) che venga demandata ad arbitri la decisione di eventuali controversie che potranno nascere dal contratto (principale) stipulato tra le parti.

Interessanti spunti di riflessione riguardano l’autonomia della clausola compromissoria e la sua “circolazione”. Con riferimento al primo aspetto, l’art. 808 c.p.c. prevede espressamente, al comma 2, che “la validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce”. Attraverso tale previsione, introdotta dalla Legge n. 25/1994, il Legislatore ha chiaramente inteso sganciare ogni profilo di dipendenza della clausola compromissoria rispetto al giudizio attinente alla intrinseca validità giuridica del contratto principale nel suo complesso. Può, quindi, sostenersi che la clausola compromissoria, nonostante la sua denominazione, non ha, della clausola, che il nome e l’apparenza; essa costituisce, in realtà, un autonomo negozio giuridico, suscettibile di vivere una vita propria rispetto a quella del contratto cui accede. Dal punto di vista processuale, ne discende che gli arbitri hanno il potere di pronunciarsi sia su tutte le questioni afferenti al contratto principale (comprese quelle relative alla sua nullità o inesistenza) sia sulla validità ed efficacia della clausola compromissoria; solo nell’ipotesi in cui anche la clausola compromissoria sia affetta da nullità o inesistenza, il collegio arbitrale sarà tenuto a dichiarare la propria incompetenza. 

L’autonomia della clausola compromissoria ha importanti riflessi anche sotto l’aspetto della sua “circolazione”, con riferimento, ad esempio, alle cessioni di crediti derivanti da un contratto contenente una convenzione d’arbitrato. Al riguardo, la giurisprudenza, proprio in virtù dell’autonomia della clausola compromissoria rispetto al contratto cui essa accede, ha più volte chiarito che “il cessionario di credito nascente da contratto nel quale sia inserita una clausola compromissoria non subentra tout court nella titolarità del distinto e autonomo negozio compromissorio e non può, pertanto, invocare detta clausola nei confronti del debitore ceduto” (ex multis Cassazione Civile, sez. I, ordinanza n. 16127 del 14.6.2019).

Nel contempo, il debitore ceduto che sia convenuto innanzi al giudice ordinario dal cessionario del credito può opporre a quest’ultimo la clausola arbitrale contenuta nel contratto dal quale nasce il credito ceduto. Ed infatti, il debitore ceduto, da un lato, è estraneo al contratto di cessione del credito, e, dall’altro, è invece parte della clausola compromissoria, che ha diritto di opporre al cessionario del credito, in virtù del principio per cui il debitore ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto formulare nei confronti del creditore originario.

Ricostruite la natura e la fonte del giudizio arbitrale, occorre ora soffermarsi sullo svolgimento del procedimento, sull’efficacia del lodo arbitrale e sulla conseguente distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale7.

Quanto al primo aspetto, il procedimento arbitrale ha inizio con la domanda di arbitrato, con cui una parte, in forza della convenzione di arbitrato, dichiara l’intenzione di promuovere il giudizio arbitrale, proponendo le relative domande e nominando il proprio o i propri arbitri di parte. Nel termine di venti giorni dalla notifica di tale atto, la controparte deve nominare il proprio o i propri arbitri. Completata la nomina degli arbitri in conformità alle previsioni contenute nella convenzione di arbitrato, si procede alla costituzione del collegio arbitrale, che fisserà le udienze, assegnerà alle parti termini per il deposito di memorie - nelle quali le parti stesse dovranno formulare i quesiti e le proprie conclusioni precisando o eventualmente modificando quelle precedentemente indicate – e concederà, in conformità al disposto di cui all’art. 816 bis c.p.c., ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa, nel pieno rispetto del fondamentale principio del contraddittorio.

Il procedimento si conclude con l’emissione del lodo arbitrale8, che definisce il giudizio.

Venendo alla distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, va osservato che nel primo le parti devolvono la definizione di controversie ad arbitri al fine di pervenire - all’esito di un giudizio in cui siano osservate le regole del procedimento arbitrale dettate dal codice di procedura civile - all’emissione di un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c. In tal caso, ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c., il lodo9, dalla data della sua ultima sottoscrizione, ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria. La parte che intende far eseguire il lodo, può richiedere al Tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato di dichiararne con decreto l’esecutività, a valle dell’accertamento dell’esistenza di una valida convenzione d’arbitrato e della regolarità formale del lodo.

Nell’arbitrato irrituale, disciplinato dall’art. 808 ter c.p.c., le parti stabiliscono che, in deroga a quanto disposto per il lodo rituale dall’art. 824 c.p.c., la controversia sia definita dagli arbitri mediante l’emissione di un lodo avente efficacia contrattuale tra le parti stesse. A differenza di quanto previsto per l’arbitrato rituale, le parti posso stabilire che gli arbitri non debbano necessariamente attenersi alle disposizioni dettate dal codice di rito, con l’unico obbligo del rispetto del principio del contraddittorio.

Il lodo contrattuale, come ogni altro contratto, vincola le parti ad eseguire l’obbligazione; in caso di inadempimento, il creditore può adire il giudice ordinario proponendo un’azione di cognizione finalizzata ad ottenere una sentenza che costituisce titolo esecutivo.

Alla luce delle considerazioni sviluppate nel presente lavoro, tenuto conto anche delle lungaggini che caratterizzano il processo innanzi al giudice ordinario, può ritenersi che l’arbitrato sia un istituto in grado di esaudire le esigenze di celerità e prontezza nella definizione delle controversie tanto rilevanti soprattutto nei settori delle attività economiche e commerciali, laddove il tempo necessario alla tutela dei diritti delle parti rappresenta un fattore di fondamentale importanza.

 

[1] Cecchella, “L’arbitrato”.

[2] Rescigno, “Arbitrato e autonomia contrattuale” in Riv. arb., 1991, 15.

[3] Rubino – Sammartano, “Il diritto dell’arbitrato”; Satta, “Commentario”.

[4] Codovilla, “Del compromesso e del giudizio arbitrale”.

[5] Confortini, “Clausola compromissaria”. Nozione, in Dizionario dell’arbitrato e Schizzerotto “Dell’arbitrato”.

[6] Schizzerotto, “Dell’arbitrato”.

[7] Panzarini, “L’arbitrato irrituale”, I, Padova, 1992; Punzi, “I principi generali della nuova normativa sull’arbitrato”, in Riv. dir. Proc., 1994; Elia, “In tema di arbitrato irrituale”, in Giur. compl. Cass. Civ., 1948, II.

[8] Satta, “Contributo alla dottrina dell’arbitrato”.

[9] Tarzia, “Efficacia del lodo e impugnazione nell’arbitrato rituale e irrituale”, in Riv. dir. civ., 1987; Scaduto, “Gli arbitratori”; Vasetti, “Arbitraggio”; Schizzerotto, “Arbitraggio improprio”.

 

Questi ed altri temi sono affrontati nei Master in Business Law.

Ultima modifica il 12/10/2020

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