A cura dell'Avv. Damiano Galati, partecipante dell'Executive Master in Giurista d'Impresa e General Counsel.

A più di vent’anni dall’entrata in vigore del D.lgs. 231 del 2001, che disciplina la responsabilità dell’ente derivante da reato, risulta ancora vivo e centrale il dibattito giurisprudenziale in merito alla vexata quaestio dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente stesso.

La facoltà, per la persona danneggiata dal reato, di far valere la propria pretesa risarcitoria costituendosi parte civile nel processo penale contro l’ente è discussa.

Questa incertezza di opinioni su un argomento dai risvolti pratici così importanti si ripercuote tanto sulle persone offese, che necessitano di chiarezza sui modi in cui far valere le proprie pretese, quanto sugli enti che in qualità di imputati non sono in grado di conoscere a priori il confine della responsabilità di cui dovranno rispondere.

Alla base del contrasto vi sono principalmente due ragioni; la prima si ricava dal silenzio serbato dal legislatore nel testo del decreto 231/2001, nel quale non si fa alcun riferimento alla parte civile ed alla possibilità di costituzione della stessa da parte della persona offesa dal reato.

La seconda ragione del contrasto è basata sulla difficoltà di inquadrare, con esattezza, la natura della responsabilità dell’ente derivante da reato, dalla quale si può far discendere la possibilità o meno di costituirsi parte civile a seconda che questa sia ritenuta penale piuttosto che amministrativa.

Dottrina e giurisprudenza sono arrivate a tre diverse conclusioni: la prima considera la responsabilità dell’ente equiparata a quella penale, in quanto viene accertata attraverso un procedimento penale e dunque ammette la costituzione di parte civile; la seconda invece, si basa sul dato letterale e facendo leva sul testo stesso del decreto recitante “Responsabilità amministrativa da reato”, la considera amministrativa negando la costituzione di parte civile.

Infine, si è formata una teoria che identifica la responsabilità dell’ente come un tertium genus di responsabilità del tutto autonoma rispetto alle precedenti.

I fautori della prima tesi e dunque dell’ammissibilità sostengono che la natura della responsabilità deve considerarsi penale, sulla base dei continui richiami nel Decreto ad elementi ed istituti tipici della repressione dei reati ed alla applicazione di sanzioni punitive di carattere penale, applicate da un giudice penale su richiesta di un P.M.

Viene preso poi in considerazione il fatto-reato presupposto all’illecito dell’ente: perché vi possa contestare la responsabilità ex. d.lgs. 231/2001 è necessaria la commissione di un fatto-reato che abbia prodotto un interesse o un vantaggio in capo all’ente.

A sostegno dell’ammissibilità è stato posto anche l’art. 8 del Decreto, secondo il quale l’ente può essere sanzionato anche se il soggetto agente del reato presupposto non sia stato identificato o risulti non imputabile.

Ci sarebbe quindi un unico processo in cui potersi costituire parte civile e negarne la possibilità lederebbe il diritto del danneggiato.

La tesi opposta, nonché maggioritaria, esclude la costituzione di parte civile perché considera la responsabilità dell’ente di tipo amministrativo, basandosi oltre che sul dato letterale, sul fatto che l’ente viene chiamato a rispondere di un illecito comunque diverso rispetto al reato presupposto.

I sostenitori di tale tesi sostengono la inidoneità dell’illecito, nel sistema 231, di creare i danni che discendono generalmente da un reato e dunque in grado di far nascere una pretesa risarcitoria.

Sull’argomento la Suprema Corte ha ritenuto l’illecito dell’ente come “una fattispecie complessa, della quale il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali” (Cass., S.U., 23 gennaio 2011, n. 34476), ponendolo sullo stesso piano della qualifica dell’agente, dei requisiti dell’interesse o del vantaggio dell’ente e della colpa di organizzazione.

La terza tesi, considera la responsabilità alla base del Decreto come un tertium genus posto a metà tra quella penale e quella amministrativa che viene giustificata dal brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi noulit tacuit.

I fautori di questa tesi sostengono come sia proprio la relazione illustrativa al d.lgs. 231/2001 ad aver posto l’esigenza di una omogeneizzazione tra i due sistemi di responsabilità amministrativa e penale, al fine di far nascere, nel rispetto delle garanzie del sistema, un nuovo sistema nei confronti degli enti che sia un tertium genus rispetto ai primi due.

Anche tale orientamento però, nonostante propenda maggiormente per l’ammissibilità della costituzione di parte civile, non giunge ad una conclusione univoca sul punto, tanto da far ritenere non decisiva l’identificazione della natura della responsabilità in esame ai fini della risoluzione della questione sulla ammissibilità di costituzione della parte civile.

La giurisprudenza maggioritaria ha nel tempo accolto la tesi restrittiva con alcune importanti pronunce, tra tutte Cass., Sez. VI, 22 gennaio 2011, n. 2251, nella quale è stata rilevata un’assenza sistematica nel processo a carico dell’ente di riferimenti alla parte civile e alla persona offesa dal reato presupposto.

Tale assenza non è dovuta ad una lacuna normativa, ma è frutto di una vera e propria scelta legislativa che pone una deroga, intenzionale, rispetto la regolamentazione codicistica.

Successivamente si è espressa anche la Corte Costituzionale con Sentenza n. 218 del 18 luglio 2014 che, interrogata sulla questione della mancata previsione nel testo del Decreto della costituzione di parte civile, ha sposato l’orientamento della Cassazione e non ha rilevato alcuna illegittimità, sostenendo che il diritto di difesa non viene compresso in quanto il soggetto può far valere le sue pretese in un autonomo processo civile.

Il dibattito si è recentemente riacceso dopo due pronunce di merito intervenute nell’arco di pochi giorni l’una dall’altra che hanno affrontato la questione in modo diametralmente opposto.

La prima è del g.u.p. Trib. Milano, ord. 3 febbraio 2021, pronunciata nel procedimento riguardante l’incidente ferroviario del Pioltello, con la quale è stata dichiarata inammissibile la richiesta di costituzione di parte civile, nei confronti di R.F.I. S.p.a, da parte delle vittime dell’incidente, avallando così l’indirizzo giurisprudenziale prevalente.

Il Tribunale di Milano sposa pienamente le risultanze della Corte di legittimità nella citata Sentenza 2551/2011, ponendo alla base della sua decisione tre circostanze: l’elemento letterale dell’assenza, nel decreto 231, di ogni riferimento alla parte civile; la circostanza che alcune disposizioni del decreto stesso, ad esempio gli artt. 12, 17 o 19, pongono l’attenzione a profili di danno patrimoniale senza però far menzione della parte civile confermando la volontà di escluderla; infine, nega che la relazione illustrativa la decreto 231 contenga riferimenti all’ammissibilità della costituzione.

I giudici milanesi hanno sottolineato che la ratio alla base della responsabilità dell’ente è quella di applicare nei suoi confronti una sanzione con finalità proattiva e non di tipo punitiva.

Lo scopo ultimo del sistema 231 sarebbe quindi quello di prevenire futuri illeciti da parte dell’ente, incentivandolo così a porre in essere una adeguata struttura di prevenzione.

In questo contesto, la pretesa risarcitoria della parte danneggiata assume importanza residuale.

In senso opposto si è espresso il Tribunale di Lecce con ordinanza del 29 gennaio 2021, ammettendo la costituzione di parte civile delle parti offese direttamente nei confronti dell’ente TAP, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale che ammette tale possibilità e che qualifica la responsabilità dell’ente quale “tertium genus”.

I giudici di Lecce hanno rilevato che le norme del codice di procedura penale che disciplinano la costituzione di parte civile possono essere applicate senza difficoltà al Decreto 231.

A sostegno di tale argomento sono stati posti gli articoli 34 e 35 del Decreto, i quali sanciscono che le norme del codice di procedura penale sono applicabili al procedimento nei confronti dell’ente se compatibili e che allo stesso ente si applicano tutte “le disposizioni processuali relative all’imputato” sempre in quanto compatibili.

Alla base di questa tesi i giudici hanno posto innanzitutto un argomento letterale e cioè che nessuna norma vieta espressamente la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente.

In secondo luogo, un argomento di tipo storico-interpretativo, che analizza la relazione illustrativa al decreto 231, evidenzia l’impossibilità di far discendere la inammissibilità della costituzione di parte civile dal testo della stessa.

Il terzo argomento a sostegno è di tipo sistematico, i giudici partendo dal concetto di “rapporto di immedesimazione” arrivano ad affermare che nel sistema 231 il reato posto in essere dal soggetto, inserito nella compagine sociale, a vantaggio o nell’interesse di questo, può essere qualificato come proprio della persona giuridica e quindi questa è in grado di cagionare un danno risarcibile per fatto suo proprio che lo obbliga al risarcimento ex artt. 185 e 74 c.p.

L’analisi degli orientamenti contrapposti e la loro recente riproposizione da parte della giurisprudenza di merito, evidenzia come il contrasto sia ad oggi tutt’ altro che risolto e come questo porti ad una profonda incertezza del sistema.

Le ripercussioni ricadono sugli enti, sui cittadini e su tutti gli operatori del diritto, i quali potrebbero vedersi accettata o meno dal giudice la costituzione di parte civile a seconda del tribunale in cui il giudizio è pendente, aumentando così la sfiducia verso un sistema che già a vent’anni dalla sua nascita trova ancora difficoltà ad essere pienamente attuato.

Si auspica dunque, in conclusione, un intervento da parte del legislatore che provi a risolvere una volta per tutte la querelle ponendo un limite ai contrasti giurisprudenziali e definendo il perimetro della responsabilità dell’ente imputato ai sensi del d.lgs. 231/2001. 

BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA

 

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