Con il presente contributo si tenterà di scandagliare il poco materiale ad oggi a disposizione con lo scopo di verificare qual è, secondo l’orientamento comune, la natura giuridica delle “criptovalute”. 

 

A cura dell'Avv. Tommaso Togni, partecipante dell'Executive Master in Giurista d'Impresa & General Counsel.


Sempre più tema di attualità, tutto ciò che riguarda la digitalizzazione rappresenta un fenomeno destinato a diventare di massa e preponderante nelle nostre vite. Ad oggi termini quali moneta virtuale, valuta virtuale, criptovalute, bitcoin, smart contract, block chain, token, NFT e PKI vengono comunemente usati nel linguaggio, ma spesso gli stessi termini non sono appieno compresi, o vengono usati come sinonimi tra loro. E se è chiara la loro importanza o funzionamento in chiave economico commerciale, meno lo è il loro inquadramento giuridico. Aspetto che viene in rilievo soprattutto in episodi patologici, quando si cerca di tutelare i diritti relativi a questi nuovi mezzi con strumenti “canonici”, ovviamente non pensati in origine per rispondere a determinate esigenze.

In particolare con il presente contributo si tenterà di scandagliare il poco materiale ad oggi a disposizione con lo scopo di verificare qual è, secondo l’orientamento comune, la natura giuridica delle “criptovalute”. Tema non solo teorico, ma che ha importanti riverberi anche sulla vita di privati ed imprese.

Per cercare di dare una risposta ad un tale quesito è necessario partire dalla fonte più alta a nostra disposizione, ossia quella sovranazionale.

Infatti la D. 2018/843/UE (c.d. Direttiva Antiriciclaggio) definisce le valute virtuali come:

una rappresentazione di valore che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata ad una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente. [...] ”.

Tale disciplina veniva emanata, non tanto per definire giuridicamente il fenomeno ed inquadrarlo, ma dettata all’esclusivo scopo di evitare la diffusione di fattispecie criminali (es. terrorismo, riciclaggio). Infatti la criminalità organizzata (e non) ha trovato in tali strumenti una via rapida e tendenzialmente sicura per portare avanti i propri traffici illeciti, nella quasi totale certezza di non di lasciare tracce.

La normativa sovranazionale è stata recepita nel d. Lgs 90/17 (modificato dal d. lgs 125/2019) riprendendo in maniera pedissequa quanto contenuto nella fonte superiore, con l’aggiunta di due concetti non secondari ai fini della classificazione giuridica delle criptovalute:

  • le criptovalute possono essere usate come moneta di scambio;
  • i detentori di questa moneta virtuale possono utilizzarla con finalità di investimento.

Tale disposizione è l’unica fonte interna utile al nostro proposito iniziale. E’ facilmente intuibile che più che una norma definitoria ci troviamo dinanzi ad una disposizione descrittiva di un fenomeno, che lascia all’interprete (giudice od operatore del diritto) il compito di districarsi nella questione, con importanti precipitati a seconda di dove conducano le valutazioni del caso. Un esempio, sempre più comune, in cui i legislatori, nazionale ed europeo, inseguono affannosamente la realtà.

Operando in negativo, ad oggi ovviamente è da escludere che le criptovalute (di cui i bitcoin sono un esempio, ma non l’unica) siano assimilabili alle monete legali. Ciò, importante da sottolineare, però non fa sì che automaticamente le stesse siano illegali. Altrettanto è da escludere che siano assimilabili alle monete virtuali in quanto in queste ultime è presente un c.d. “garante”  che, secondo la definizione di moneta elettronica, a seguito del deposito di fondi, diviene debitore-garante dell’utilizzatore del dispositivo elettronico stesso. Questo aspetto è fondamentale perchè da un lato alle criptovalute non è applicabile la normativa europea sulle monete elettroniche, dall’altro, i termini criptovaluta e moneta elettronica non sono sinonimi.

Da ciò consegue che alle criptovaluta non sono astrattamente applicabili gli istituti giuridici della cessione di credito e di delegazione di pagamento (mancano anche in queste ipotesi i c.d. “soggetti intermediari”). In ogni caso è comune l’idea che per assurgere al rango di moneta come oggi la conosciamo le criptovalute debbano imparare ad essere “stabili” [la loro volatilità è rinomata e da molti apprezzata, ma le rende astrattamente inidonea a divenire “metro di valutazione”].

In maniera avanguardistica, alcuni si sono spinti a definirla “moneta complementare”:

È uno strumento con cui è possibile scambiare beni e servizi affiancando il denaro ufficiale (rispetto al quale è per l’appunto “complementare”). Solitamente questa non ha corso legale e viene accettata su base volontaria, il che contribuisce ad identificare la comunità all'interno della quale è usata, in modo non troppo dissimile dai vantaggi di una tessera associativa.” [1]

Precisato ciò, la dottrina e giurisprudenza hanno in ogni caso tentato a più riprese di inquadrare giuridicamente le criptovalute nel tentativo di dare risposte concrete a fattispecie che via via si pongono all’ordine del giorno attraverso le categorie esistenti attualmente nel nostro ordinamento.

Da un’inevitabile ed estrema sintesi non sembra praticabile  un inserimento dei bitcoin all’interno della categoria dei “beni giuridici” ex art. 810 C.c. (Secondo cui “Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti[2]), stante l’impossibilità di un pacifico inquadramento degli stessi sia tra i “beni materiali” (non esistendo nella realtà), sia tra i “beni immateriali” (tenuto conto che questi ultimi sono tipici: il diritto su un bene immateriale esiste soltanto se una norma lo riconosce).

Nel silenzio del legislatore è quindi la Giurisprudenza a doversi far carico di colmare le inevitabili lacune, al fine di dare risposta alle istanze dei privati e imprese.

Il primo contributo utile ai nostri fini è rinvenibile a livello di Unione Europea, dove Corte di Giustizia[3] in tema di IVA e criptovalute statuiva come quest’ultime rientrassero nella categoria giuridica dei “beni” (ambito di applicazione art. 135 paragrafo 1, lett. e) e pertanto esenti dall’imposta sul valore aggiunto. Tale pronuncia veniva fatta propria ed avvalorata poi dall’Agenzia delle Entrate nel rendere una risposta ad un interpello postole[4].

In ambito nazionale il Tribunale di Verona[5] affrontava il tema dell’acquisto di valuta virtuale (criptovaluta). La sentenza fa rientrare tale operazione nell’ambito di operatività del Codice del Consumo, rendendo applicabile i relativi strumenti di tutela per il consumatore, definendo le criptovalute “strumenti finanziari” (la dottrina è parzialmente in disaccordo, ritenendo migliore la qualifica di “prodotti finanziari”, categoria più ampia che ricomprende i primi, tipizzati).

Sembra favorevole alla ricostruzione dottrinale la Consob che nel 2018 con una sua delibera qualificava i “token” prodotti finanziari, assoggettando la loro offerta al pubblico alla disciplina del testo unico.

A proposito merita considerare che le criptovalute, come descritto anche dal D. lgs. 90/17, vengono accettate come moneta di scambio, pertanto la funzione che rivestono è più ampia (e tra le criptovalute se esistono diverse, per diverse funzioni o utilizzate per svariati fini, anche il semplice investimento). Ciò rappresenta un’ulteriore criticità nell’opera di una loro classificazione omogenea.

Nel 2018 è stata la volta del Tribunale di Brescia e della Corte di Appello di Brescia[6] ad tentare di qualificare le criptovalute che dinanzi alla possibilità del loro utilizzo al fine di “conferimenti aziendali opponeva un netto rifiuto. Particolare che, pur pervenendo alla medesima soluzione negativa, il Giudice di primo grado e quello di secondo rendevano argomentazioni molto diverse tra loro.

Ancora, nel 2018, ad affrontare il tema delle criptovalute del Tribunale di Firenze[7] .

I Giudici del capoluogo toscano hanno statuito nel senso di considerare le criptomonete “digitalizzazione di valore” e facendole rientrare nel novero dei “beni immateriali” ex art. 810 C.c., appoggiandosi al fatto che il legislatore le considera mezzi di scambio e. pertanto, possono formare oggetto di diritti e obbligazioni.

Spostando lo sguardo sulla Corte di legittimità, il fatto che la disciplina emanata sia sostanzialmente resa per contrastare la commissione di reati, ha portato ad un’interessante pronuncia della Cassazione Penale sul tema delle criptovalute. In particolare la Suprema  Corte[8], dinanzi ad una complessa vicenda di abusivismo finanziario con protagonista un c.d. “exchanger”, non può che prendere atto di tale mancanza definitoria.

Gli Ermellini affermano infatti che:

[...] la direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (in modifica della c.d. IV direttiva antiriciclaggio), viene definita come "una rappresentazione [...] e scambiata elettronicamente"; la ratio della norma vuole evidentemente disciplinare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente, senza però correttamente definire il fenomeno (disciplinando "in negativo" le caratteristiche della moneta virtuale); il considerando n. 10 della Dir. antiriciclaggio dimostra l'assunto in quanto afferma che "sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L'obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali."

Ad oggi, pertanto, non è ancora possibile una pacifica la qualificazione giuridica delle criptovalute. Sembra di essere dinanzi ad un vero e proprio “vuoto normativo” nel quale è la Giurisprudenza a farla da padrone dovendo necessariamente dare risposte.

A parere di scrive sarebbe opportuno “emanciparsi” dai canoni classici degli inquadramenti giuridici alla luce della rapidità e fluidità di questi strumenti, sommata alla loro ontologica refrattarietà alla regolamentazione, se non proprio vocazione anarchica. Tale situazione può risultare frustrante, ma anche certamente ricca di prospettive, di opportunità e altamente stimolante.


[1] Cfr. Capogna, Peraino, Perugi, Cecili, Zborowski, Ruffo; Bitcoin: profili giuridici e comparatistici. Analisi e sviluppi futuri di un fenomeno in evoluzione; DIRITTO MERCATO TECNOLOGIA N. 3 – 2015.

[2] cfr. A. Simeone; D. Mancini; A. Ianiro, Bitcoin – Guida all’uso, cit., pp. 94 ss.

[3] Sentenza 22.X.2015, Sez. V, (causa C-214/2016).

[4] A.E. ris. n. 72/E 2.IX.2016.

[5] Tribunale di Verona sent. n. 195 2.IX.2016.

[6] Corte di Appello di Brescia D. n. 207/2018.

[7] Tribunale di Firenze, Sez. Fall. sent. n. 18/2019.

[8] Cass. Pen. Sez. 2 Num. 44337 del 10.XI.2021.

Ultima modifica il 14/02/2022