A cura dell'Avv. G. Arpea, Docente in area Legale

La questione

In caso di trasferimento della sede sociale all’estero, in particolare il caso dello spostamento dall’Italia a un altro Paese UE, nel silenzio parziale della legge la prassi camerale chiede di “chiudere il cerchio” con un’istanza di cancellazione munita del relativo certificato di accettazione del trasferimento nello Stato di arrivo. Talvolta, nella frenesia del trasferimento, nella corsa a non perdere l’avviamento e, anzi, sfruttare l’effetto volano del trasferimento, possono restare delle partite aperte.

Ad esempio, alcuni debiti insoluti con fornitori locali coi quali non si proseguirà nel rapporto all’estero e che perciò rischiano di restare dimenticati. Ma non per sempre: se il credito è superiore alla soglia di legge, il singolo creditore può agire per il recupero e, se resta insoddisfatto, chiedere il fallimento del debitore. Cosa accade se interviene la dichiarazione di fallimento in un momento in cui la società è già trasferita da tempo, ma non è stata ancora cancellata dal registro delle imprese?

Gli effetti pubblicitari

Partiamo dagli effetti pubblicitari dell’iscrizione della cancellazione della società presso il registro delle imprese, per poi passare alla dichiarazione di fallimento. In mancanza di una disciplina legislativa chiara, possiamo immaginare tre ipotesi differenti:

  1. il trasferimento diviene efficace con la cancellazione nel registro delle imprese italiano (efficacia costitutiva);
  2. il trasferimento, già divenuto efficace con l’iscrizione nel registro delle imprese dello Stato di arrivo, diviene opponibile in Italia solo con la cancellazione della società (efficacia dichiarativa);
  3. il trasferimento, già divenuto efficace con l’iscrizione nel registro delle imprese dello Stato estero, non necessita di ulteriori adempimenti per essere reso opponibile in Italia e la cancellazione è un semplice adempimento di “chiusura” del procedimento (efficacia di pubblicità notizia).

Ciascuna delle tre soluzioni porta a conseguenze applicative molto diverse; infatti:

  1. se si accogliesse la prima ipotesi, la sede statutaria al momento della dichiarazione di fallimento sarebbe localizzata sul territorio italiano (il che, comunque, come vedremo, non implica automaticamente che il giudice nazionale sia munito di giurisdizione);
  2. in base alla seconda ipotesi, il trasferimento di sede sarebbe opponibile ai terzi solo a partire dalla cancellazione;
  3. seguendo invece la terza ipotesi, la sede statutaria sarebbe da localizzare nello Stato di destinazione.

Se proviamo a esaminare in dettaglio le tre ipotesi notiamo che:

  1. la prima è coerente con la tesi che identifica i trasferimenti di sede con continuità come trasformazioni internazionali e pertanto applica per analogia la disciplina della trasformazione[1]; dal punto di vista pubblicitario si applicherebbe l’art. 2500 c.c., ai sensi del quale «la trasformazione ha effetto dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari di cui al comma precedente» (comma 3), per cui, in conformità al comma 2 della medesima norma («l’atto di trasformazione è soggetto alla disciplina prevista per il tipo adottato ed alle forme di pubblicità relative, nonché alla pubblicità richiesta per la cessazione dell’ente che effettua la trasformazione»), la cancellazione sarebbe l’ultimo degli adempimenti pubblicitari previsti e gli effetti decorrerebbero da questo atto. Tuttavia, nell’accogliere questa tesi si accetta che si crei un periodo di tempo più o meno lungo in cui la società risulta “duplicata”: seppure iscritta regolarmente iscritta nel Paese d’arrivo, la medesima società esiste contemporaneamente in due nazioni diverse e con due status diversi; però, il patrimonio e gli organi sociali non sono duplicati, ma rimangono unici e costituiscono un solo soggetto di diritto. Un argomento ulteriore che mostra i limiti di questa interpretazione si ricava dalla diversità della cancellazione di società in seguito a trasferimento all’estero rispetto a quella conseguente al procedimento di liquidazione[2]. Questa differenza ha come conseguenza principale l’inapplicabilità alla società, cancellata per trasferimento, del termine stabilito dall’art. 10, l. fall., che non consente la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore quando sia trascorso oltre un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, poiché questa norma si basa sulla coincidenza tra cancellazione e cessazione dell’attività sociale[3]; per questo motivo, non sembra possibile attribuire efficacia costitutiva alla prima iscrizione invocando l’art. 2495 c.c.;
  2. nel secondo caso, il trasferimento sarebbe perfezionato con l’iscrizione nel registro delle imprese straniero; tuttavia, nell’ordinamento italiano, tale avvenimento sarebbe opponibile ai terzi solo con la cancellazione della società. Questa ricostruzione fornisce una tutela rilevante per i terzi (in particolare i creditori sociali), che spesso, in simili operazioni, rimangono sforniti di adeguata protezione. Tuttavia, questa interpretazione non elimina del tutto il problema della “duplicazione” evidenziata in precedenza, oltre a risultare piuttosto forzata, dal momento che per mezzo di essa si va a conferire a un atto non previsto dalla legge una portata e un’efficacia di rilievo assoluto;
  3. la terza e ultima ipotesi sembra quella più rispettosa del dato normativo, che prescrive la sola iscrizione della delibera di trasferimento ai sensi dell’art. 2436 c.c. e, nonostante sia scarno, non ammette una necessità inequivocabile di applicare in via analogica altre disposizioni di diritto. Inoltre, questa soluzione è l’unica che elimina il problema della “duplicazione”, sebbene offre ai terzi una protezione minore; protezione che non è comunque assente, considerata in particolare la prassi osservata dal conservatore del registro delle imprese di annotare la pendenza del trasferimento. In ultimo, non appare trascurabile che questa ipotesi si concilia con la diversa natura della cancellazione per trasferimento rispetto a quella conseguente al procedimento di liquidazione.

Non sembra che una ipotesi prevalga chiaramente sulle altre e la questione della sede del fallimento sembra restare aperta.

Il centro degli interessi principali del debitore

Proviamo allora a esaminare la questione secondo una prospettiva differente. Nel caso in esame, il trasferimento avviene tra due Paesi membri UE Pertanto, la competenza giurisdizionale a dichiarare aperto il fallimento va esaminata alla luce dell’art. 3, par. 1, reg. CE del 29 maggio 2000, n. 1346 (nel prosieguo “reg. CE n. 1346/2000”)[4]Ai sensi dell’art. 3, par. 1, reg. CE n. 1346/2000, «sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore. Per le società e le persone giuridiche si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede statutaria». 

Abbiamo messo a fuoco due nozioni: quella di centro degli interessi principali del debitore (“CIP”) e la presunzione di coincidenza del CIP con la sede sociale. Approfondiamoli.

La nozione di CIP

All’interno del reg. CE n. 1346/2000 non è prevista una definizione di CIP. L’unico dato testuale a disposizione è il considerando 13 del regolamento, ai sensi del quale per CIP «si dovrebbe intendere il luogo in cui il debitore esercita in modo abituale, e pertanto riconoscibile dai terzi, la gestione dei suoi interessi». Dunque, i primi criteri per individuare il CIP sono quelli della abitualità dell’esercizio dell’attività e della riconoscibilità nei confronti dei terzi; oltre a ciò, l’elaborazione dottrinaria e quella giurisprudenziale forniscono elementi aggiuntivi, in quanto il centro degli interessi principali del debitore dovrà essere effettivo, trasparente e da interpretare autonomamente rispetto alle leggi dei singoli Stati membri e perciò con riferimento al solo diritto dell’UE[5].

La presunzione di coincidenza del CIP con la sede statutaria

Il reg. CE n. 1346/2000 stabilisce, per le società e le persone giuridiche, una presunzione semplice[6] di coincidenza del CIP con la sede statutaria. Presunzione che può essere superata qualora, «dal punto di vista dei terzi, il luogo dell’amministrazione principale di una società non si trova presso la sede statutaria»[7]. In particolare, ciò potrà avvenire nel caso in cui «elementi obiettivi e riconoscibili da parte dei terzi consentano di determinare l’esistenza di una situazione reale diversa da quella che si presume corrispondere alla collocazione» presso la sede statutaria[8].

In concreto, sono stati ritenuti elementi idonei a vincere la presunzione:

  • «la localizzazione in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria di beni immobili appartenenti alla società debitrice, con riferimento ai quali quest’ultima abbia concluso contratti di affitto, nonché l’esistenza in questo stesso Stato membro, di un contratto stipulato con un istituto finanziario»[9];
  • la «constatazione dell’impossibilità di reperire la società nella sede ufficiale […], ove era stata inutilmente tentata la notifica del ricorso per fallimento, […] il rilievo della residenza in Italia del legale rappresentante della medesima società, dello svolgimento sempre in Italia delle pur sporadiche operazioni liquidatorie del patrimonio sociale e della presenza qui dell’unico bene mobile ad essa sicuramente ancora riferibile; con l’aggiunta del fatto che in Italia la medesima società ha conservato la partita Iva»[10];
  • il caso in cui «attività negoziale, amministrativa, di contatti e contratti con i clienti, nonché di invio di corrispondenza, e i suoi soci, clienti e amministratori nonché le sue banche di riferimento [erano] italiani»[11];
  • ancora il caso di una società lussemburghese il cui intero capitale sociale era detenuto da società aventi sede in Italia, amministrata da un consiglio in cui l’unico soggetto lussemburghese non era titolare di deleghe operative e la cui attività era costituita dalla emissione di prestiti obbligazionari, garantiti dalle altre società, tutte italiane, del gruppo[12].

Osservazioni conclusive

Abbiamo visto che la natura sostanzialistica del CIP permette di considerare come presunzione semplice il dato dell’ubicazione della sede statutaria. Pertanto, l’efficacia, o meglio la conoscibilità legale, nell’ordinamento italiano del trasferimento all’estero al tempo della dichiarazione di fallimento rileverà solamente per ripartire l’onere della prova in materia di CIP, nel senso che:

  • ove il trasferimento si considerasse improduttivo di effetti al tempo della dichiarazione di fallimento (quindi adottando l’ipotesi 1 o 2), la società dovrebbe provare l’effettiva ubicazione del CIP all’estero;
  • mentre, qualora si accogliesse l’ipotesi 3, l’onere di provare l’effettività del CIP sarebbe stato in capo al Giudice che dichiara il fallimento; perciò la sentenza di fallimento sarebbe impugnabile per questo profilo.

In conclusione, in materia di competenza giurisdizionale a dichiarare il fallimento sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il CIP del debitore. E il CIP coincide, fino a prova contraria, con la sede statutaria dell’entePertanto, nel caso più sfavorevole, vale a dire quello in cui si considerasse la società ancora residente in Italia al momento della dichiarazione di fallimento, rimane possibile provare che dal punto di vista sostanziale la società avesse il proprio centro degli interessi principali all’estero.


 

[1] Cfr. L. Boggio, Trasferimenti fittizi, incompleti o “ultrannuali” della sede legale all’estero e fallimento della società cancellata dal registro delle imprese italiano, in Giur. it., 2014, p. 629 s. e F.M. Mucciarelli, Società di capitali, trasferimento all’estero della sede sociale e arbitraggi normativi, Milano, 2010, p. 174 ss.

[2] Cfr. M. Spiotta, Trasferimento (fittizio) della sede legale all’estero: effetti sulla giurisdizione, sulla competenza e sul decorso del termine annuale di fallibilità, in Giur. it., 2014, p. 341, la quale afferma che «[i]n pratica, la “cancellazione per trasferimento” (all’estero o in un’altra provincia) della sede (dicitura invalsa nella prassi delle istruzioni dei conservatori dei registri delle imprese) avrebbe in comune con la cancellazione all’esito della liquidazione ex art. 2495 c.c. solo il nome, ma sarebbe una vicenda ontologicamente distinta».

[3] Cfr. Cass. civ., sez. un., 18 aprile 2013, n. 9414, in Giur. it., 2014, p. 615, secondo cui «laddove la cancellazione di una società dal registro delle imprese italiano sia avvenuta non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente, o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come conseguenza del trasferimento all’estero della sede della società, e quindi sull’assunto che questa continui, invece, a svolgere attività imprenditoriale, benché in altro Stato, non trova applicazione l’art. 10 L. Fall.»; nello stesso senso Cass. civ., sez. I, 24 gennaio 2014, n. 1508, in Giur. it, 2014, p. 338 e Cass. civ., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945, ivi, p. 615. In dottrina, v., da ultimo, M. Spiotta, op. loc. citt. e L. Boggio, op. cit., passim, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti.

[4] Cfr. ex multis M.A. Lupoi, Art. 3, reg. CE n. 1346/2000, in Commentario breve alla legge fallimentare, a cura di A. Maffei Alberti, 6 ediz., Padova, 2013, p. 2102, secondo il quale i criteri di collegamento in materia di competenza giurisdizionale ivi contenuti «hanno natura esclusiva rispetto all’operare di qualsiasi altro criterio previsto dalla lex fori».

[5] In questo senso Corte giust. UE, 2 maggio 2006, c. 341/2004 “Eurofood”, in Fall., 2006, p. 1249; App. Milano, sez. IV, 14 maggio 2008, n. 18, in Fall., 2009, p. 65.

[6] Sul punto la dottrina e la giurisprudenza sono unanimi, v. ex multis M.A. Lupoi, op. loc. citt.

[7] Così Corte giust. UE, 20 ottobre 2011, c. 396/2009 “Interedil”, in Giur. comm., 2012, II, p. 580.

[8] Sempre Corte giust. UE, 20 ottobre 2011, cit., ibidem.

[9] Nuovamente Corte giust. UE, 20 ottobre 2011, cit., ibidem.

[10] Così Cass. civ., sez. un., 11 marzo 2013, n. 5945, in Fall., 2014, p. 89 s.

[11] Così App. Roma, sez. I, 3 luglio 2012, in Fall., 2013, p. 444.

[12] Cfr. Trib. Isernia, 10 aprile 2009, in Fall., 2010, p. 59.

Questi ed altri temi sono affrontati nei Master in Business Law.

Ultima modifica il 09/04/2021

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