A cura dell'Avv. S. Mecca, Docente in area Legale

Per fondare una condanna per un reato tributario non si può far ricorso alle presunzioni fiscali che comportano l’inversione dell’onere probatorio in quanto sovvertono il principio di presunzione di innocenza dell’imputato. Tali presunzioni possono, viceversa, avere rilevanza ai fini dell’adozione di misure cautelari reali essendo sufficiente, in detta sede, l’oggettiva sussistenza indiziaria del reato. E’ questo, ormai, l’orientamento pacifico della Cassazione penale in tema di utilizzo delle presunzioni fiscali in ambito penale, confermato anche dalla recente pronuncia n. 1083 del 2021.

La questione

La normativa tributaria prevede una serie di presunzioni legali a favore dell’Amministrazione finanziaria che trasferiscono sul contribuente l’onere della prova contraria. Ad esempio, l’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, prevede che i dati emersi da una serie di operazioni, tra cui quelle bancarie, possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, salvo che il contribuente non dimostri di averne tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non abbiano rilevanza allo stesso fine. Più in generale, le norme tributarie consentono all’Amministrazione di determinare alcune transazioni ed operazioni, non in base al valore effettivo, ma secondo altre modalità (in genere attraverso il cd. valore normale). Occorre, ancora, tener presente che l’Amministrazione, in presenza di determinate circostanze, può procedere all’accertamento dei ricavi e dell’Iva del contribuente anche sulla base di presunzioni semplici anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (accertamento induttivo).

Le presunzioni fiscali possono, quindi, essere utilizzate nel procedimento tributario per facilitare l’accertamento del Fisco. Ci si chiede, a questo punto, se tali elementi presuntivi possono essere utilizzati o meno, nel procedimento penale, per addivenire ad una condanna dell’imputato per una fattispecie di reato tributario. L’art. 533, primo comma, c.p.p. prescrive che «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio»: ciò vuol dire che in sede penale il giudicante deve procedere ad un effettivo accertamento delle circostanze costitutive del reato ascritto al contribuente. La Corte di cassazione, già nel 2009, aveva ritenuto irrilevante il metodo di quantificazione dell’imposta evasa, precisando che la presunzione legale (nella specie proprio quella contenuta nell’art. 32, primo comma, n. 2) non opera in sede penale. Si sono poi susseguite, nel tempo, innumerevoli pronunce della Suprema Corte sul punto.

La soluzione

E’ ormai principio assodato quello per cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, hanno un mero valore indiziario e non possono costituire di per sé fonti di prova del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa. Di conseguenza, il giudice penale deve specificamente indicare le ragioni per le quali ritiene attendibili i dati emersi dal controllo fiscale, non potendoli recepire acriticamente. Inoltre, nel processo penale non può in alcun modo trovare applicazione il principio dell’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente/imputato, essendo il relativo giudizio governato da regole diverse che presuppongono uno scrupoloso vaglio critico da parte del giudice. Quest’ultimo, quindi, dovrà analizzare e valutare tutti gli elementi a sua disposizione ed accertare la reale quantificazione dell’imposta che si assume evasa, senza che tale attività possa essere fatta ricadere sull’imputato. In sintesi, è necessario operare una netta differenza tra le regole probatorie del procedimento tributario e quelle del processo penale: gli elementi che determinano presunzioni, secondo la disciplina tributaria, sono elementi valutabili dal giudice penale ai fini della formazione del suo convincimento; gli stessi, però, non possono avere la medesima efficacia loro attribuita nel procedimento tributario, dovendo essere oggetto di autonoma e critica valutazione da parte del giudice.

La soluzione

Le presunzioni tributarie possono essere considerate solo quali meri indizi ex art. 192 c.p.p. e potranno essere poste a base di una decisione di condanna solo ove si accerti, nel procedimento penale, la loro effettività. Tale principio è ormai consolidato in seno alla Cassazione (cfr. per tutte Cass. n. 7242/2019), secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire da sole una valida prova della commissione del reato ipotizzato. Ciò posto, occorre specificare che, se pur le presunzioni fiscali non costituiscono prova del reato e non possono fondare una condanna dal lato penale, ben può essere fondata su di esse l’applicazione di una misura cautelare. Infatti, in materia di misure cautelari reali, ai fini della loro applicazione, non è necessario un compendio indiziario che si configuri come grave ex art. 273 c.p.p., essendo sufficiente l’esistenza del fumus del reato - e quindi la sua mera probabilità di commissione - secondo la prospettazione della pubblica accusa, sulla base dell’indicazione di dati fattuali che si configurino coerenti con l’ipotesi criminosa. La recente pronuncia n. 1083/2021 ha ribadito che le presunzioni fiscali non possono di per sé sole fondare una condanna per un illecito fiscale; tuttavia, ai fini della cautela reale è sufficiente l’oggettiva sussistenza indiziaria del reato a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza dell’autore. Così in sede cautelare sono sufficienti ad integrare il fumus anche le presunzioni fiscali.

Conclusioni

La circostanza che le presunzioni fiscali non possano essere utilizzate in sede penale, deriva dalle fondamentali difformità tra i due procedimenti. Il procedimento tributario ha ad oggetto la verifica della legittimità della pretesa dell’Amministrazione finanziaria, che agisce al fine di recuperare somme non versate dal contribuente; il processo penale, invece, accerta se è stato commesso un fatto e se lo stesso costituisce reato. Di conseguenza anche le pene sono differenti: da una parte viene colpita la libertà personale (costituzionalmente garantita), dall’altra il patrimonio/reddito. Ne consegue che non si può ancorare una sanzione penale a giudizi meramente ipotetici, non concretamente verificati dal giudice e suffragati da elementi di fatto. È, al contrario, necessario che l’accertamento penale si basi su un effettivo riscontro probatorio. Tuttavia, le stesse presunzioni sono sufficienti a legittimare l’applicazione di una misura cautelare reale (sequestro) nei confronti del contribuente-indagato. La possibilità di applicare una misura cautelare, infatti, non richiede un compendio indiziario grave, ma la semplice prospettazione del «fumus» del reato, ovvero la mera probabilità di effettiva consumazione dell’illecito.

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Ultima modifica il 22/01/2021

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