Self Impression Management e Recruitment

L’essere umano, diceva Aristotele1, è un animale sociale: dal singolo alla coppia, a comunità che abitano villaggi o metropoli, egli tende ad aggregarsi con altri individui in Stati e società. Questa socialità non è tuttavia, come continuava il filosofo greco, il risultato di un mero istinto naturale. Donne e uomini sono “animali sociali” perché, nella maggior parte dei casi, il soddisfacimento di qualsiasi bisogno implica una necessaria relazione con una (o più) persone. Il comportamento che si sceglie di tenere in pubblico, quindi, risulta spesso vincolato a ciò che si ritiene essere quello giusto da mettere in pratica in vista del proprio obbiettivo. La maniera per esempio in cui si cammina per strada, in cui ci si veste, in cui si parla – ogni aspetto dunque della comunicazione fisica e verbale- a seconda delle situazioni rimanda in un’ultima istanza alla ricerca di una nostra approvazione (oppure, all’estremo opposto, di una netta distinzione) da parte di altri individui all’interno dell’interazione sociale. Modificare o adeguare il proprio sé “esteriore”, da un punto di vista comportamentale o fisico, dunque, si rivela a volte una strategia del tutto umana per raggiungere il proprio obbiettivo il prima possibile, sia esso un accesso a un determinato bene, spazio, posizione o servizio.
Tale meccanismo sociale viene chiamato da psicologi e sociologi “self management impression”. Seppur possa sembrare “naturale” (proprio perché messo quotidianamente in pratica da ciascuno di noi, in maniera più o meno consapevole), si tratta invece di un fenomeno complesso ed interessante secondo diversi punti di vista, non ultimo quello delle HR. Chi si occupa di ricerca e selezione del personale, infatti, dovrebbe conoscere bene i modi e le tecniche con cui un candidato in sede di colloquio (se non a partire dalla scrittura del proprio CV) tenta di impressionare il selezionatore, in modo da aumentare le proprie probabilità di ottenere la posizione per cui concorre. A loro volta, poi, gli stessi selezionatori sono chiamati a mantenere, mentre intervistano i candidati, una certa “rigidità” emotiva, per non far trapelare pareri ed emozioni che possano in un qualche modo modificare l’esposizione del candidato: è fondamentale infatti che questa debba essere più “autentica” possibile, così che la valutazione finale non sia inficiata da alcun bias selettivo [Cardano 2011]. In questo articolo si analizzerà dunque che cosa si intende per self management impression, in che modo esso è stato studiato, e quali sono le situazioni in cui è più facile riconoscerlo nel processo di Recruitment.

Lo studio di questo affascinante meccanismo sociale è legato indissolubilmente ad una figura: quella del sociologo canadese Erving Goffman [1922-1982], principale studioso dell’interazione sociale nel quotidiano. Secondo Goffman, il management impression «è il modo in cui ogni persona cerca di controllare ed influenzare l'impressione del sé che lascia negli altri, a seconda della situazione» [1959]. In questa breve definizione appare centrale, come detto più sopra, l’importanza della “situazione” a cui deve essere sempre corrisposto un tipo di comportamento. Infatti, ogni volta chi ricorre a questa strategia è costretto ad adeguare il suo “sé” esteriore (come il modo di parlare o vestirsi) idealmente agli elementi della data situazione esterna in cui si trova (come, nel caso di un’intervista, l’ufficio del selezionatore). È per questo motivo che Goffman parla, a tal proposito, di maschera, per indicare l’espediente del singolo per camuffare le proprie emozioni e risolvere l’ideale duello tra self e stimoli esterni: tale metafora drammaturgica coinvolge due elementi, ovvero il gestire le impressioni mettendo in scena una "performance", e, nel caso, l’occultamento di quelle possibili distorsioni del self incompatibili con la realtà circostante [Solomon, 2013].

Il termine “maschera” può essere definito come il valore sociale positivo che una persona rivendica effettivamente per sé [...]. Essa è un'immagine di sé delineata in termini di attributi sociali approvati - come quando una persona fa una bella mostra per la sua professione o religione facendo una buona rappresentazione per sé stesso [Goffman, 1967]. 

Inoltre, tanto più grande è lo sforzo di tale tentativo, tanto più sarà difficile mascherare il sé interiore con l’immagine che viene presentata al di fuori: la coerenza espressiva richiesta nelle esibizioni evidenzia una discrepanza cruciale tra il nostro io fin troppo umano e il nostro io socializzato. Come esseri umani siamo presumibilmente creature di impulso variabile con stati d'animo ed energie che cambiano da un momento all'altro […] tuttavia, non dobbiamo essere soggetti ad alti o bassi. Si prevede una certa burocratizzazione dello spirito, in modo tale da poter contare su una prestazione perfettamente omogenea in ogni momento stabilito [Goffman, 1963].

Che l’interazione avvenga davanti a più persone, oppure faccia a faccia, l’individuo si troverà sempre sottoposto a questa “burocratizzazione dello spirito”, anche solo per non correre il rischio di venire marchiato come un outsider [Becker, 1963] (a causa della disomogeneità tra gli “attribuiti della maschera”, come dice Goffman, e la situazione esterna) e di fatto venire tagliato fuori dal processo interattivo [Goffman, 1963]. Da questo punto di vista, dunque, ognuno di noi agisce come un vero e proprio attore pirandelliano, passando da una “maschera” all’altra all’interno dell’interazione, in modo da celare o mettere in risalto il sè che si ritiene più appropriato per quella data situazione. Quest’ultima, che influenza e caratterizza dunque il tipo di interazione tra individui, viene efficacemente definita da Goffman con il termine “frame”, appunto, cornice [1967]: essa è il contesto in cui è impostata l'interazione intesa dai partecipanti [Goffman, 1974]. In questo caso, l’imposizione dello stesso frame a tutte le persone coinvolte fa loro assumere una percezione "condivisa" della realtà, attraverso la "consapevolezza reciproca" del dato momento, in cui i due o più individui interagiscono. La coerenza espressiva, o “definizione della situazione” [Genova, 2013] stabilisce allora il tipo di maschera che la persona utilizzerà di fronte alle altre, mettendo in scena, secondo un’altra metafora drammaturgica del sociologo canadese, una vera e propria “performance”.

Questo processo, noto come performance, è basato sul controllo (o la mancanza di controllo) delle impressioni e la comunicazione delle informazioni attraverso esse. Nel costruire una maschera, le informazioni sull'attore vengono divulgate attraverso una varietà di fonti comunicative, che devono essere tutte controllate per convincere efficacemente il pubblico dell'adeguatezza del comportamento e della consonanza con il ruolo assunto. […] Si tenta di presentare una versione "idealizzata" del sé esteriore, più coerente con le norme, i costumi e le leggi della società [Goffman, 1959, in Barnhart, 2003]. Come un attore davanti alla platea, anche un candidato in sede di colloquio deve essere in grado di poter fornire un’immagine di sé “presentabile” appunto, cioè in linea con le aspettative di chi è davanti. Se una persona “recita” in accordo con i principi sottesi agli elementi esterni all’interazione (esempio l’ambiente fisico e/o il tipo di occasione in cui ci si trova), allora maschera, frame e, di conseguenza, la perfomance saranno allineati fra loro [Genova, 2013] e maggiori saranno le possibilità di riuscita della performance. In caso contrario, invece, il tentativo non avrà le stesse probabilità di andare a buon fine. Per questo motivo, l’ultimo elemento del management impression è quello che Goffman identifica come l’occultamento da parte del soggetto (come il candidato in sede di colloquio) di tutti quegli aspetti estranei e “non-coerenti” con la situazione presente.

Dunque, per Goffman: "Le informazioni relative al comportamento e alle convinzioni aberranti sono nascoste al pubblico in un processo di "mistificazione", mettendo in risalto quelle caratteristiche che sono sanzionate socialmente, legittimando sia il ruolo sociale dell'individuo sia il quadro a cui appartiene il ruolo (67)" [Goffman, 1959, Ibidem]. Se Goffman ha spiegato che la performance di un individuo può riuscire a catturare “il pubblico” che ha di fronte, al punto che alcuni lievi errori possono essere interpretati non come una “rottura” della maschera presentata, bensì venire accettati come elementi involontari, nel nostro caso il candidato dovrebbe fare attenzione invece ad evitare quegli errori grossolani come lapsus linguistici o gesti scomposti (come vedremo nella seconda parte) che potrebbero inficiare la propria performance durante il colloquio. Al di là delle possibili difficoltà causate da questi inconvenienti poco eleganti, essi potrebbero arrecare addirittura maggior danno al candidato se indirettamente (e, sfortunatamente) finissero per svelare al recruiter aspetti e lacune del proprio background sia dal punto professionale che personale, pregiudicandone l’assunzione.

Il management self impression sembra dunque di per sè radicato in maniera insita nella natura stessa del processo di selezione. In ultima istanza, infatti, come si è visto esso non è altro che un’ interazione sociale tra due sconosciuti, alla base della quale stanno obbiettivi diversi e ben precisi: per uno, infatti, la posta in palio è l’accesso ad un determinato servizio (in questo caso una posizione lavorativa), mentre l’altro, al contrario, deve indirettamente dare dimostrazione di essere all’altezza del proprio ruolo (in un ambiente competitivo e in rapida trasformazione come quello del recruiting, il rischio per ogni recruiter di potersi trovare dalla parte del candidato è purtroppo sempre presente). Entrambi, però, dovranno sforzarsi di cercare una certa coerenza nella loro rappresentazione, in modo che l’altro non “scopra” il trucco dietro questa oculata gestione delle proprie emozioni, tramite l’adozione di mimiche gestuali ed altri meta-linguaggi di diverso tipo. D’altra parte, come detto più sopra per il primo è una strategia per celare gli aspetti più negativi della propria presentazione oppure possibili lacune sulla propria preparazione e, in generale, suscitare un’impressione di sè il più affine possibile a quelle che pensa siano essere le aspettative e le richieste del selezionatore; il secondo, al contrario, dovrà (in teoria) di contro mantenere un atteggiamento che lasci il meno possibilità al candidato di camuffare fisicamente e comunicativamente la propria intervista. Se non riconosciuto ed individuato, dunque, il management self impression rappresenta una vera e propria “minaccia” per il selezionatore poco attento, poiché rischia di inficiare di bias selettivi l’impressione che si ha del candidato e, di conseguenza, la sua valutazione nelle fasi successive del colloquio. Ed è proprio in questa fase del processo di selezione che si gioca una vera e propria partita di emozioni, impressioni ed osservazioni. Quello che nell’immaginario collettivo rappresenta la prima vera sfida nel mondo del lavoro, talvolta descritto o ricordato come un angosciante (specie se non andato a buon fine) rigido e formale incontro aziendale, nel quale i recruiters -primo, e, talvolta, ultimo volto dell’azienda che il candidato conosce- sono chiamati a svolgere l’ingrato ruolo di “guardiani”, quasi a voler imitare i gate keepers di circoli esclusivi e sette mistiche [Cardano, 2011], è invece qualcosa di molto più complesso: "Il colloquio è un particolare esempio di relazione interpersonale (Sullivan, 1989) caratterizzato dall’incontro di due persone, una delle quali riconosciuta come esperta delle relazioni interpersonali, l’altra come soggetto intervistato. Il contesto ha lo scopo di definire alcune caratteristiche inerenti principalmente ma non esclusivamente il soggetto interessato […] e dati concreti da parte dell’intervistatore" [Gandolfi, 2003].

Dal consolidamento del suo utilizzo negli anni Sessanta, passando per sperimentazioni più o meno strettamente vincolate a un copione di domande, l’odierna intervista di colloquio, intesa ora come “libera” o ancora più comunemente come “semi-strutturata” (laddove il selezionatore non indirizza le domande, bensì lascia ampio spazio di gestione al candidato), rappresenta forse il modo migliore per mettere a fuoco da subito competenze e predisposizioni della possibile risorsa. In questo caso, quello che è fondamentale per il recruiter per poter riconoscere e difendersi dalle insidie del management self impression messo in atto in maniera volontaria o meno dal candidato, è, quasi paradossalmente, quella di mettersi sulla “difensiva” lasciandolo parlare ed osservando attentamente il suo registro meta-comunicativo. Qui il selezionatore deve però essere abile e ben preparato: l’atto stesso dell’osservazione infatti comporta purtroppo possibili rischi per la valutazione totale del candidato. Ad esempio, osservatori differenti possono vedere e leggere in modo differente diversi tipi di comportamento, così come dare ad essi maggior peso, oppure ignorarli completamente; questo è il motivo per cui negli anni il processo di selezione si è arricchito di altre tecniche di valutazione che prevedano altri tipi di momenti valutativi del candidato [Gandolfi, 2003]. La finalità dell’osservazione messa in atto dal recruiter rimane comunque quella di individuare quelle precise competenze professionali nel soggetto che si trova di fronte a lui, che devono essere coerenti con il profilo di riferimento della posizione per cui si è aperta la ricerca. Ed è proprio su questo punto che insiste, sempre in maniera più o meno velata, e, a seconda dei casi più o meno volontaria, quella gestione di emozioni messa in atto dal candidato deciso a farsi assumere al di là di possibili idiosincrasie tra il proprio bagaglio di competenze tecniche e relazionali e la rappresentazione che dà di sé in sede di colloquio. Nella maggior parte dei casi, dunque, il recruiter, informato e conscio di tutti quei bias che un processo standard di selezione tramite job interview porta con sé (problematica a cui si è già largamente accennato nel corso di questa esposizione), deve cercare di prestare il più possibile attenzione a tutti quegli aspetti poco osservabili o difficilmente decifrabili, se non con un’osservazione attenta ed in particolare rivolgendo domande che lascino sì spazio al candidato, ma che al tempo stesso siano in grado di metterne in risalto competenze, punti di forza e possibili criticità. Centrale diventa dunque lo studio di quel “materiale verbale oltre che non verbale” del candidato, focalizzandosi sui contenuti della sua esposizione: spesso un attenta analisi in tale direzione fornisce molti elementi interpretativi che il candidato attiva con tale tipo di proiezione, attraverso cui ci comunica in modo non del tutto consapevole stato d’animo, percepito vissuto del contesto di colloquio, tensioni ,preoccupazioni personali, riconducibili all’incontro ma anche ad altri aspetti esperienziali della propria vita […] carattere, personalità, preoccupazioni, aspettative, ambizioni e bisogni… [Gandolfi, 2003]. Queste componenti, che possono appunto essere anche non verbali (tono di voce, le espressioni del viso, mimica e gestualità ecc…), definiscono l’emozionalità del candidato in fase di colloquio e più generalmente sono utilissimi indicatori del management impression.

Più un intervistatore diventa esperto ed abile ad individuare questo meccanismo, più sarà attento ad osservare tutti quegli elementi inerenti allo svolgimento del colloquio (come il ritmo e la lunghezza delle risposte, l’importanza che viene data a ciò che viene detto o il modo in cui egli si allontana da esso…) che possono far emergere un gran numero di elementi biografici, professionali e relazionali relativi alla persona che si sta intervistando, la quale a sua volta potrebbe tentare di nascondere o viceversa esasperare a seconda della situazione e del proprio obbiettivo. Riprendendo la lezione di Goffman, a seconda delle proprie esigenze un candidato metterà in scena una rappresentazione di sè piuttosto che un’altra, adottando di conseguenza un certo tipo frame; per esempio:

Ingratiation2 Per esempio, quando il candidato nell’intervista si serve di forme verbali ed atteggiamenti riconducibili a conformismo, adulazione, oppure eccessiva modestia volte a suscitare apprezzamento nei confronti del recruiter.
Intimidation  Rappresentazione di sé stessi in maniera troppo enfatica, a tratti quasi aggressiva: di solito è volta a dimostrare prontezza ed orientamento all’obbiettivo (nella maggior parte dei casi, piuttosto, sembra essere messa in pratica degli stessi recruiter, specie nei cosiddetti “colloqui sotto stress”)
Self- promotion3 Descrizione di sé volta al riconoscimento di competenza, intelligenza, abilità, nell’intento di focalizzare l’attenzione sulle proprie qualità positive, sui propri obbiettivi futuri o sui risultati conseguiti in passato
Exemplification  Presentazione di sé come individuo onesto, disciplinato, pronto al sacrificio, ecc.
Supplication  Il candidato cerca di esasperare in sede di colloquio gli aspetti più problematici e difficili della propria situazione nel (a volte davvero maldestro) tentativo di suscitare nell’interlocutore maggior empatia


Come è stato più volte ripetuto, anche il linguaggio non verbale, e dunque mimiche e movimenti del corpo, possono aiutare a riconoscere il management self impression messo in atto dal candidato nel tentativo di guidare l'impressione del recruiter in vista dei propri obiettivi personali o sociali [Schlenker & Pontari, 2000]. Per esempio4, i segnali più comuni riguardo ad un atteggiamento nervoso – che potrebbe celare menzogne o informazioni non coerenti con quanto dichiarato in fase di candidatura- possono essere lo strofinarsi naso o labbra con il dorso della mano, l’assenza di contatto visivo o, in maniera più che evidente, il continuo muoversi apparentemente senza trovare una posizione comoda. Al contrario, frequenti sorrisi e una stretta di mano vigorosa possono aiutare ad individuare un candidato rilassato (ma non disinteressato) e idealmente affidabile, mentre parlare eccessivamente- senza rispettare i canonici turni che compongono la “cerimonia” dell’intervista [Cardano, 2011], gesticolare in maniera troppo enfatica e, soprattutto, cercare insistentemente la complicità del recruiter con lo sguardo, potrebbero invece essere potenziali indicatori di un candidato che forse sta in qualche modo cercando di sviare, proprio attraverso un processo di mangement impression, aspetti professionali o personali dall’indagine del selezionatore.

In conclusione, conoscere ciò che si intende, sia sul piano teorico delle scienze sociali e psicologiche, sia nella “pratica” delle tecniche di selezione e gestione del personale, per management self impression, questa affascinante strategia socio-relazionale messa in atto da ciascuno di noi -in quanto esseri sociali e fortemente dipendenti dall’interazione- può dunque essere un’arma in più nel bagagliaio del recruiter. Attraverso la conoscenza dei suoi vari passaggi “dalla maschera alla performance”, chi si occupa di selezione può dunque individuare da subito quali candidati sono in possesso di candidature idonee per la posizione (e coerenti nella sua esposizione), e chi, invece, vuole “vendere” la propria figura, proprio attraverso quelle “maschere” e strategie che rispondono a meccanismi sociali ormai antichi quanto la società stessa.

1 Aristotele, Politica

2 Varna, A. et al. 2006

3 Proost, K. et al. 2010

4 Un ringraziamento dovuto, in questa sede, al prof. Campanella del Master Meliusform per le sue illuminanti lezioni sul tema in esame

________________________________________________________________________________________________________________________________

Bibliografia

  • Aristotele, Politica
  • Barnhart.A (1994), Erving Goffman. The Presentation of Self in Everyday Life, (produzione riservata)
  • Becker, H. (1963), Outsiders. Studi di sociologia della devianza, Meltemi, 2017
  • Cardano, M. (2011), La ricerca qualitativa, Il Mulino, 2011
  • Gandolfi, G. (con la collaborazione di Alessandra Pasinato), (2003) Il Processo di Selezione. Strumenti e tecniche
  • (colloquio, test, assesment,di selezione), FrancoAngeli, Milano
  • Genova, C. (2011), Il cerchio nello spazio. Ipotesi e strumenti per un’analisi della ri–significazione dei luoghi, in Lexia. Rivista di semiotica, pp. 193-209
  • Goffman, E. (1959), The Presentation of Self in Everyday Life (La vita quotidiana come rappresentazione), Il Mulino, 1997
  • Goffman, E. (1963), Il comportamento in pubblico. L'interazione sociale nei luoghi di riunione, Einaudi, 2008
  • Goffman, E. (1963), Stigma. L'identità negata, Ombre Corte, 2003
  • Goffman E. (1969), Modelli di interazione, collana «Testi e studi», Il Mulino, 2000
  • Goffman, E. (1974) Frame analysis. L'organizzazione dell'esperienza, Armando Editore, 2001
  • Proost, K et al. (2010) Ingratiation and Self‐Promotion in the Selection Interview: The Effects of Using Single Tactics or a Combination of Tactics on Interviewer Judgments, Journal of Applied Social Psychology 40(9):2155 - 2169 · September 2010
  • Schlenker, B. R., & Pontari, B. A. (2000), The strategic control of informa-tion: Impression management and selfpresentation in daily life. In A.Tesser, R. Felson, & J. Suls (Eds.), Perspectives on self and identity (pp.199–232). Washington, DC: American Psychological Association.
  • Solomon, J.F; Solomon A; .Joseph, N.L; Norton S. (2013), Impression management, myth creation and fabrication in private social and environmental reporting: Insights from Erving Goffman, in Accounting, Organizations and Society Volume 38, Issue 3, pp.195-213
  • Varma, A, Soo Min, T; Rotman, J; Pichler, S., (2005), Ingratiation in job applications: impact on selection decisions, Journal of Managerial PsychologyVol. 21 No. 3, 2006 pp. 200-210

 


A cura di M. Vigarani (partecipante dell'Executive Master in Direzione del Personale)

I temi dedicati alla Selezione del Pesonale sono affrontati nei Master in Gestione del Personale di MELIUSform Business School

Ultima modifica il 14/05/2020

Torna indietro