A cura di R. Rinaldi, Direttore Affari Legali e Societari di Esso Italiana

Il termine sostenibilità è oramai entrato in modo predominante nella nostra vita di tutti i giorni. Tuttavia, nonostante ciò, sembra che non vi sia un significato uniforme e condiviso da attribuirgli e quindi il rapporto con la “sostenibilità” è articolato da ciascuna azienda in modo diverso.

Se volessimo cercare di risalire ad una prima definizione, seppure generica, del termine bisognerebbe guardare al Rapporto Brundtland degli anni ’80 da parte della Commissione mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo dove la sostenibilità veniva identificata con la soddisfazione dei bisogni della generazione presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare le proprie necessità. Quindi sostenibilità di fatto voleva significare genericamente l’adozione di scelte e comportamenti fatti con consapevolezza anche alla luce di effetti di lunga durata.

Ed a partire da quegli anni, anche a seguito dei grandi scandali finanziari intervenuti, le business schools e le università, prima in US e poi in tutti i Paesi del mondo, hanno inserito la business ethics e la connessa responsabilità sociale d’impresa come disciplina specifica seguendo un nuovo trend che voleva le imprese avessero come finalità non più solo il perseguimento del proprio self-interest (il profitto), ma allargassero l’orizzonte comprendendo anche la propria dimensione sociale e dunque  gli interessi di altri soggetti. In realtà è acclarato che le imprese siano responsabili anche nei confronti di una varietà di stakeholders come dipendenti, investitori, partners commerciali, appaltatori clienti, comunità locali, e più in generale l’ambiente. Questo ha comportato due importanti riconoscimenti e cioè il valore etico in sé del rispetto della legge e l’esistenza di una zona “grigia” da gestire nella conduzione degli affari in cui l’etica aziendale si esprime come dovere al di là della legge.

Nel 2001 il Green Paper della Commissione afferma infatti che la Corporate Social Responsibility inizia dove finisce la legge.La sostenibilità assume poi la veste di un programma globale con la risoluzione delle Nazioni Unite del 25.9.2015 quando, nel definire i 17 Obiettivi e i 169 Traguardi per lo Sviluppo Sostenibile che costituiscono il programma per il 2030 per “liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e [...] curare e salvaguardare il nostro pianeta [...] per portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza.”, la risoluzione non si rivolge solo agli Stati e ai Governi ma anzi dà credito espressamente all’imprenditoria privata, quale motore di crescita economica inclusiva, produttività e posti di lavoro, e la invita ad impiegare la propria creatività ed innovazione per trovare una soluzione alle sfide dello sviluppo sostenibile. In particolare, l’Obiettivo 17 invita al partenariato mondiale tra governi, settore privato e società civile. Queste collaborazioni sono ritenute indispensabili ad ogni livello al fine di mobilitare, reindirizzare e liberare il potere trasformativo di migliaia di miliardi di dollari di risorse private per realizzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

Una vera rivoluzione.

Qualcuno potrebbe ricercare in questo un riconoscimento dell’accresciuto potere del privato verso il pubblico con multinazionali che oramai sfidano in grandezza anche le nazioni non solo da un punto di vista economico ma anche nell’individuazione ed esecuzione di obiettivi di carattere sociale. In merito vale osservare che, sempre più, le grandi «corporation transnazionali» (la definizione è dell'Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo) abbiano più peso, più potere e più «salute» di parecchi Stati sovrani. Resta comunque che l’agenda globale delle Nazioni Unite del 2030 è stata e vuole essere una rivoluzione in tutti i sensi. Sicuramente incentiva l’integrazione della dimensione economica, di quella sociale e ambientale nell’ambito di un pensiero che, come ebbe modo di osservare Enrico Giovannini, in qualità di Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, è molto diverso da quello a cui siamo stati abituati in particolare nel capitalismo degli ultimi 40 anni, che aveva posto l’economia in primo piano su tutto il resto. I 17 goal dell’agenda non sono una lista, ma sono un piano per cambiare il mondo di cui ovviamente le imprese devono essere e sono parteIn questo schema non occorre chiedersi se viene prima l’economia, l’ambiente o il sociale trattandosi di un sistema in cui ogni componente è ugualmente indispensabile. Essere sostenibile per un’impresa quindi significa essere in grado di conseguire contemporaneamente la sostenibilità in questi tre aspetti strettamente correlati tra loro e non c’è dubbio che oramai nell’attività di impresa come i risultati vengano raggiunti sia rilevante allo stesso modo se non di più dei risultati stessi. Ne consegue che è sempre più essenziale tener conto degli interessi di tutti gli stakeholders coinvolti.

È noto che i pilastri di un’azienda eticamente responsabile, oltre al codice etico che rappresenta e identifica i valori di riferimento, sono i processi, le procedure, i programmi di training che lo accompagnano e consentono di infonderlo nell’organizzazione. Ed è altresì noto che codice etico, processi, procedure, programmi e organizzazione per portare ad un risultato effettivo richiedano la presenza costante e continua di una leadership etica. Questa è il vertice della piramide di una cultura etica aziendale di cui gli altri elementi costituiscono il corpo e la base. Nella scienza organizzativa aziendale, la leadership è quella competenza trasversale, quel soft skill, che ci consente di ispirare altri ad impegnare le proprie energie verso uno scopo o una finalità comune. Ma l’impegno del leader da solo ancora non basta perchè necessariamente richiede il commitment degli altri. È dimostrato, in altri termini, che mentre non si può motivare un individuo o un’organizzazione ad un livello di impegno che il leader non condivide al contempo l’impegno può essere sostenuto, mantenuto, conservato e preservato nel tempo solo se coloro che ne sono coinvolti lo condividono in modo pieno e consapevole.

In questo percorso virtuoso, il Management ha il ruolo centrale e cruciale di identificare i principi e gli obiettivi, di creare una cultura della sostenibilità delle operazioni, sviluppare i piani per la loro attuazione, comunicarli e “viverli” con tutti i livelli del personale perché i sistemi, i processi, le attività necessari all’attuazione possano essere compresi, assimilati, condivisi, acquisiti ed applicati correttamente e costantemente in una parola creare quello che viene definito un engagement framework, di mantenere controlli e verifiche (KPI) che consentano di prevenire deviazioni e violazioni ma anche di identificare errori e correggerli imparando e migliorando. Un sistema di sostenibilità integrata è una costante rivoluzione appunto che chiede l’abbandono definitivo dell’ottica di breve periodo e un abbraccio sincero a politiche di sviluppo sostenibile per il futuro delle nuove generazioni che sono stanche della nostra inerzia e saranno i clienti e consumatori critici e severi di domani. Una simile rivoluzione della cultura aziendale non può prescindere dal contributo fattivo e costante di ciascuno all’interno dell’azienda. Dal vertice alla base ognuno deve “garantire” il proprio impegno al rispetto e all’attuazione della compliance, dei valori etici aziendali e ai principi e agli obiettivi di sostenibilità. Nessuno può sostituirsi ad altri nell’adempimento di tale impegno perché questo non consentirebbe il mantenimento del rispetto su base permanente. Ed è tempo quindi per ciascuno in azienda di passare dalla responsability alla accountability dalla capacità di dare “risposte” alla capacità di essere la “risposta”.

E dal momento in cui, per ciascuna impresa, l’etica aziendale e i codici etici sempre di più assumono un ruolo di “soft law”  se non un ruolo ancora più cogente (si pensi ad esempio al codice etico quale vertice dei modelli organizzativi di cui alla legge 231/2001 ma anche ai report sulla sostenibilità in cui ogni azienda manifesta all’esterno la propria visione e strategia in merito), il ruolo del General Counsel e di ciascun giurista di impresa oggi non può essere ancora solo limitato a rispondere “è legale” ma deve essere necessariamente ampliato fino a comprendere una risposta alla domanda “cosa si dovrebbe fare”. Quindi non più solo “cosa abbiamo diritto di fare” ma “cosa è giusto fare”, tenendo in considerazione gli interessi individuali e collettivi di altri soggetti con cui la impresa si trova ad interagire nell’ambito della sua attività. In altre parole, il raggio d’azione del giurista non può essere più confinato all’analisi dei fatti, delle circostanze e delle norme applicabili per favorire il rispetto della legge ma deve necessariamente occuparsi degli aspetti etici e reputazionali che costituiscono oramai una parte essenziale e imprescindibile di tale analisi per prevenire rischi cui l’azienda possa incorrere con la propria attività. In questo sforzo, il giurista d’impresa ha un ruolo fondamentale in quanto, per sua natura e per deontologia professionale, non può che condividere e vivere nel quotidiano i valori rappresentativi dell’integrità. Il contributo e il valore aggiunto dell’in-house counsel sarà acquisire la necessaria influenza, pur senza potere se non quello che deriva dall’autorità che si fonda sulla propria indipendenza, autonomia e professionalità, per sollecitare, favorire, stimolare, instillare, diffondere la cultura etica nell’azienda. Rendersi così punto di riferimento anche per gli organismi interni deputati alla vigilanza e ad altri specifici compiti in tale materia (penso agli OdV, alla Compliance, ai Comitati di Vigilanza ed Etici, etc).

Questo richiede da una parte di essere riconosciuto dal vertice aziendale quale “alfiere dell’integrità e dei valori etici”, quale consulente saggio in grado di guidare, specie nelle aree grigie, a trovare la strada più giusta. In altri termini, essere riconosciuto e confermarsi costantemente quale indispensabile componente del processo decisionale e gestionale. Dall’altra parte richiede di rendersi visibile in tale ruolo all’organizzazione e a ciascun individuo che la compone dando testimonianza quotidiana di aderenza ai valori, fornendo guida, confronto e supporto a chiunque lo richieda.

A tal fine, bisogna non solo comprendere pienamente l’esigenza del cambiamento che la sostenibilità integrata richiede all’azienda ma anche abbracciare e vivere tale cambiamento calandolo nella gestione dell’attività della propria funzione legale e della propria organizzazione. Il giurista d’impresa deve essere proattivo, allineato con la visione, la strategia, gli obiettivi della propria azienda ma anche connesso all’esterno per captare nuovi indirizzi e trend così da contribuire al cambiamento. L’impegno del General Counsel e di ogni giurista d’impresa sarà nel vivere i valori etici aziendali e tramite l’esempio e la guida aiutare il vertice e ciascun individuo che partecipa all’organizzazione a far sì che i valori etici aziendali si riflettano in ogni attività fino a divenirne una parte indistinguibile e imprescindibile della vita dell’azienda stessa.

Ultima modifica il 31/03/2021

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