A cura dell'Avv. M. Sartori, Docente in area Legale

1.La mobilità del personale nello schema dell’art. 2103 cod. civ.

Le mansioni affidate al dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato sono il cuore del contratto perché ne costituiscono l’oggetto tipico, l’obbligazione di facere a fronte delle quale il lavoratore matura il diritto alla retribuzione. Ormai cinque anni fa, per effetto delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 (cd. Codice Contratti), l’art. 2103 cod. civ. – che è la norma codicistica centrale quanto ai termini ed ai presupposti in presenza dei quali rigidamente (a pena di nullità) l’ordinamento consente la modifica delle mansioni – è stato oggetto di una epocale novella legislativa.

Verosimilmente, durante la «fase 2» ne emergeranno, nella pratica, le dirompenti valenze applicative, sinora non appieno metabolizzate dal mercato del lavoro.

La formulazione vigente dell’art. 2103 cod. civ. consente:

  • variazioni unilaterali (in senso orizzontale ed in senso verticale);
  • variazioni consensuali (in senso verticale).

Di seguito, una sintesi del quadro normativo di riferimento.

Variazioni unilaterali in senso orizzontale

«Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».

(art. 2103, comma 1, cod. civ.)

 

Il datore di lavoro può unilateralmente imporre al lavoratore (anche in assenza del suo consenso) mansioni diverse rispetto a quelle assegnate, purché appartenenti allo stesso livello e categoria legale nei quali sono ascritte le mansioni di origine.

Prima della modifica del 2015, le modifiche in senso orizzontale erano vincolate allo scrutinio di «equivalenza» tra “vecchie mansioni” e “nuove mansioni”: la modifica era valida unicamente se, sul piano sostanziale, fosse comprovabile nel passaggio una effettiva omogeneità, sia sul piano qualitativo sia sul piano quantitativo.

La verifica formale – che, nella formulazione previgente, era uno degli elementi (e certo non l’unico) per riscontrare la sussistenza del requisito di equivalenza delle mansioni – costituisce, oggi, punto dirimente per le variazioni orizzontali, posto che, venuto meno il requisito dell’equivalenza, il comma 1 dell’art. 2103 cod. civ. richiede unicamente che le nuove mansioni, contrattualmente, rientrino nello stesso livello e nella stessa categoria di origine.

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Variazioni unilaterali in senso verticale

«In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa».

(art. 2103, comma 2, 3, 4, e 5, cod. civ.)

 

La variazione unilaterale in senso verticale può essere imposta in due gruppi di fattispecie:

  • il primo gruppo è espressamente definito dal legislatore e si sostanzia (con formula piuttosto ampia) nelle ipotesi di modifica degli assetti organizzativi aziendali incidenti sulla posizione del lavoratore;
  • il secondo gruppo, invece, è delegato dal legislatore alla contrattazione collettiva (anche di secondo livello).

Nell’uno e nell’altro gruppo il demansionamento incontra un doppio limite:

  • la variazione non può comportare un mutamento della categoria legale di inquadramento (ad esempio, non è possibile attuare il passaggio dalla categoria di impiegato alla categoria di operaio);
  • nell’ambito della predetto limite, sono consentiti unicamente variazioni di un solo livello contrattuale.

La variazione unilaterale attuata nell’ambito degli schemi precedenti è valida purché il lavoratore mantenga il medesimo trattamento economico e normativo di origine, fatta eccezione per eventuali voci economiche strettamente legate alle modalità di svolgimento delle mansioni di provenienza (ad esempio, una particolare indennità collegata al lavoro notturno).

 

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Variazioni consensuali in senso verticale

«Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro»

(art. 2103, comma 6, cod. civ.)

 

Il limiti sopra descritti entro i quali è consentito il demansionamento unilaterale – le due fattispecie oggettive (legislativa e collettiva), il requisito dello spostamento verso il basso entro un livello, così come il limite della conservazione dei trattamenti economici e normativi di origine – vengono meno nell’ambito delle variazioni consensuali.

Con riferimento a queste ultime fattispecie di consensuale modifica in peius delle mansioni, il legislatore ha fissato specifici requisiti relativi: all’oggetto dell’accordo; alle finalità dell’accordo; alla forma dell’accordo. In particolare:

  • per quanto concerne l’oggetto, la modifica in peius può comportare la modifica della categoria legale, del livello di inquadramento e dei trattamenti economici;
  • per quanto concerne la finalità, il novellato art. 2103 cod. civ. subordina la validità dell’accordo a specifiche situazioni (non già riferite all’impresa, come nel precedente gruppo di fattispecie, bensì) strettamente attinenti all’interesse del lavoratore: la conservazione dell’occupazione, l’acquisizione di una diversa professionalità, il miglioramento delle condizioni di vita;
  • per quanto riguarda, infine, i requisiti formali, il patto di demansionamento deve essere sottoscritto in una delle sedi protette di cui all’art. 2113, ultimo comma, c.c. (direzione territoriale del lavoro; sede sindacale; autorità giudiziaria; collegio di conciliazione e arbitrato) oppure avanti ad una commissione di certificazione.

 

2. La «fase 2» e gli strumenti fruibili nell’ambito dell’art. 2103 cod. civ.

I percorsi consentiti dall’art. 2103 cod. civ. potranno costituire un terreno privilegiato per la mobilità endoaziendale nel corso della «fase 2».

Per effetto del Decreto Rilancio (D.L. 19 maggio 2020, n. 34), i licenziamenti per ragioni oggettive sono bloccati sino al 17 agosto 2020: è un contesto in cui la flessibilità dei rapporti di lavoro viene ad assumere rilievo centrale per una ripresa efficace dei cicli produttivi. La norma codicistica esaminata nel presente contributo fornisce strumenti virtuosi per la gestione del rapporto di lavoro nell’ambito di una duplice linea direttrice:

  • mobilità del personale quale strumento per adempiere al dovere di sicurezza (v. successivo § 3.);
  • mobilità del personale quale strumento per salvaguardare il posto del lavoro (v. successivo § 4.).

 

3. Lo ius variandi del datore di lavoro in senso verticale finalizzato all’adempimento del dovere di sicurezza

La gestione dei rapporti di lavoro nella «fase 2» può trovare un alleato negli strumenti di flessibilità concessi all’imprenditore dall’art. 2103 cod. civ., le cui leve autorizzano la variazione delle mansioni assegnate ai dipendenti (in certi casi anche contro lo volontà di questi ultimi).

Abbiamo visto che, accanto alla possibilità di modifiche unilaterali delle mansioni in senso orizzontale (nell’ambito dello stesso livello e categoria legale di inquadramento), la norma autorizza, in senso verticale ed in presenza di tassativi requisiti, modifiche in peius. Sappiamo già che il datore di lavoro, ferma la conservazione del livello di inquadramento e (in linea di principio) del trattamento retributivo di origine, può imporre al lavoratore nuove mansioni inferiori sino ad un livello nell’ambito della medesima categoria legale. L’operazione è consentita dall’art. 2103 cod. civ. (i) «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore» (comma 2) oppure (ii) in presenza di «ulteriori ipotesi» introdotte dalla contrattazione collettiva, anche aziendale (comma 4). La seconda opzione può rivelarsi vincente sul piano pratico e, nell’ambito della «fase 2», merita di essere presa in considerazione.

Mentre, sino ad oggi, le relazioni sindacali aziendali non sembrano avere colto appieno le potenzialità collegate ad una preventiva definizione di causali oggettive entro le quali “dare respiro” all’art. 2103 cod. civ., la «fase 2» post emergenza Covid-19, invece, potrebbe essere propulsore per riscrivere la mobilità interna alle singole realtà produttive, con una virtuosa dialettica bipartisan datore di lavoro/soggetto collettivo. Il cogente dovere di sicurezza sul luogo di lavoro (fissato in generale dall’art. 2087 cod. civ. e, poi, procedimentalizzato nell’impianto del D.Lgs. n. 81/2008, con la precisa identificazione dei “debitori” del dovere di sicurezza  - datore di lavoro, dirigente, preposto, RSPP, RLS e medico competente - e la relativa allocazione di poteri/responsabilità) potrà detrminare la riperimetrazione, totale o parziale, delle mansioni assegnate ai lavoratori.

Entra qui in gioco, dunque, il combinato disposto dei ricordati commi 2 e 4 dell’art. 2103 cod. civ. La contrattazione collettiva aziendale potrebbe identificare in modo sartoriale quei profili professionali i quali, in presenza delle misure eccezionali imposte dalla «fase 2» ed in ottemperanza al dovere di sicurezza ex art. 2087 cod. civ., possano essere unilateralmente esposti a variazioni (in senso qualitativo e quantitativo), eventualmente anche in peius (con il limite di un livello nella medesima categoria legale di inquadramento). Se il sindacato è uno degli interlocutori del tavolo intorno al quale il datore di lavoro elabora ed attua le misure di sicurezza per eliminare/ridurre i rischi di contagio derivanti dall’emergenza Covid-19, non ci appare peregrino, allora, introdurre all’ordine del giorno di quello stesso tavolo la concertazione della mobilità dei lavoratori, secondo lo schema dell’art. 2103 cod. civ.

L’imprenditore ne uscirà con un doppio risultato: non solo l’aggiornamento ed il monitoraggio delle misure a protezione della salute e della sicurezza nel luogo di lavoro, ma anche la preventiva mappatura di causali oggettive che ex ante legittimino la mobilità verticale, con lo specifico potere datoriale di “modulatore” delle mansioni dell’organico in funzione del benessere collettivo. L’operazione sembra collimare nel calco dell’art. 2087 cod. civ., laddove il lavoratore, oltre che principale creditore del dovere di sicurezza, è in realtà anch’egli (e per la sua parte, fatta, tra l’altro,  di specifici obblighi formativi) soggetto attivo nell’adempimento di quel medesimo dovere, inclusa la consapevole attitudine di dover rimodellare il suo bagaglio professionale alle mutate esigenze aziendali. Anche in peius, se il sacrificio alla professionalità è stato collettivamente elevato a strumento di adempimento del dovere di sicurezza.

 

4. Il demansionamento concordato ed i patti di stabilità in chiave di retention

Abbiamo detto che l’art. 2013 cod. civ. limita e comprime (con disposizioni di diversa gradazione ed intensità) il cd. ius variandi datoriale, con riferimento alla modifica delle mansioni e dei conseguenti livelli retributivi. Merita ricordare che solo una sede protetta ex art. 2113, ultimo comma, cod. civ. (tra le quali rientra, appunto, la sede sindacale) autorizza modifiche in senso peggiorativo delle mansioni (sul piano quantitativo e qualitativo) ed i conseguenti trattamenti economici.

Non solo. In questo esempio sarà indispensabile (ai sensi dell’art. 2103, comma 6, cod. civ.) che l’operazione sia ispirata alla salvaguardia di uno specifico interesse del lavoratore («alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita»). Il riferimento ad una generica causale di “crisi”, dunque, che non sia unita ad un qualificato interesse del lavoratore, sarà esposto al rischio di nullità. Nella «fase 2» è lecito attendersi il moltiplicarsi di patti di questo tipo, nell’ottica di abbassare i livelli retributivi e l’associato costo del lavoro. Anche in questo contesto potranno proporsi strumenti che improntino l’operazione ad una effettiva bilateralità del sacrificio.

Ai patti di demansionamento conclusi in sede protetta si affianca nella prassi, infatti, quale ulteriore segnale di reciproca serietà contrattuale rispetto alla conservazione del posto di lavoro (e quale contrappeso all’inevitabile sacrificio della professionalità del lavoratore ed al relativo pacchetto retributivo) la stipulazione di patti di stabilità. Mediante tali accordi, che tipicamente si inseriscono nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il datore di lavoro si impegna a non recedere dal rapporto di lavoro (in altre parole: a non licenziare il dipendente) per un periodo di tempo predeterminato. Queste pattuizioni sono generalmente munite di clausole accessorie a tutela di ambedue le parti. Il tutto, in ottica di equilibrio e di tenuta giuridica del patto. A protezione dell’impresa, viene generalmente prevista la disattivazione del patto (e, dunque, la possibilità datoriale di recedere dal rapporto di lavoro) in presenza di un fatto imputabile al lavoratore che non consenta la prosecuzione, neppure provvisoria, della prestazione lavorativa (una giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ.). A tutela del lavoratore, il patto di stabilità può essere irrobustito con una apposita penale in caso di violazione del patto medesimo (ad esempio, il recesso datoriale per causale diversa dalla giusta causa oppure in caso di licenziamento formalmente intimato per giusta causa, ma al quale consegua l’accertamento giudiziale dell’assenza di giusta causa). La penale può essere variamente modulata a seconda delle circostanze che caratterizzano il caso concreto. Ad esempio, si può pensare ad una somma “one shot” (di identico ammontare indipendentemente dal momento in cui si verifica il recesso) oppure “decrescente” (commisurata alla retribuzione fissa che il manager avrebbe maturato tra la data di anticipato recesso e la data di scadenza naturale del patto).

Ultima modifica il 23/06/2020

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