Una relazione in cambiamento

L’organizzazione è da sempre stata oggetto di studio di numerose discipline; nel presente articolo sarà trattata in un’ottica prevalentemente psicologica: il centro della discussione sarà infatti la relazione tra persona e organizzazione, che potremmo fin da subito definire una relazione di mutua creazione, in quanto le persone contribuiscono in una certa misura alla formazione del contesto organizzativo e allo stesso tempo sono espressione di quest’ultimo.

Nello specifico si cercherà di delineare brevemente l’evoluzione che tale relazione ha avuto nel corso del tempo, partendo dal presupposto che questa sia sempre collegata ad un duplice cambiamento: da un lato il diverso modo in cui vengono considerate le persone; dall’altro le diverse accezioni che l’organizzazione ha assunto negli anni.

Con l’obiettivo di giungere ad una più chiara spiegazione delle diverse realtà organizzative e ad una maggiore comprensione della relazione tra persona e organizzazione, ogni tappa sarà rappresentata da una delle metafore proposte da Gareth Morgan (1986) all’interno del suo libro “Images. Le metafore dell’organizzazione”.

L’organizzazione razionale e la persona come fattore produttivo

Non si può iniziare a parlare di organizzazione senza tenere conto del contributo che è stato apportato dalle teorie organizzative classiche, sviluppatesi verso la fine del XIX secolo.

Tra queste, la più famosa è senz’altro l’organizzazione scientifica del lavoro[1], conosciuta anche come “taylorismo”, in nome del suo promotore: Frederick Taylor, ingegnere americano considerato tra gli studiosi organizzativi di maggior influenza. La sua teoria parte dall’assunto che le organizzazioni siano sistemi razionali: ciò comporta lo studio scientifico di ogni fase del processo produttivo con l’obiettivo di massimizzare l’efficienza produttiva. Quest’ultima si ottiene scomponendo e parcellizzando i processi lavorativi in operazioni e movimenti elementari, ai quali vengono assegnati tempi prestabiliti di esecuzione (Grandori, 1995).

Nasce così il cosiddetto “studio dei tempi e metodi” che mira ad una standardizzazione delle attività lavorative: per qualsiasi azione deve essere trovata la modalità realizzativa più economica in termini di quantità e tipi di movimenti, che Taylor definisce “one best way” (Kanigel, 2005).

L’unico compito degli operai è quello di mettere in pratica ciò che i dirigenti hanno pianificato. È emblematica in tal senso una frase pronunciata spesso da Taylor agli operai: «voi non dovete pensare; nell’azienda ci sono altre persone pagate per farlo».

La metafora di Morgan che si presta meglio alla rappresentazione delle teorie organizzative classiche è senz’altro quella delle organizzazioni come macchine. I teorici classici, infatti, progettano le organizzazioni esattamente come se stessero progettando delle macchine, aspettandosi che esse possano funzionare in modo routinizzato, prevedibile ed efficiente ed equiparando le persone che vi lavorano a degli ingranaggi che contribuiscono al loro funzionamento.

Dal punto di vista della psicologia del lavoro, una concezione di questo tipo porta con sé un importante limite, che riguarda i potenziali effetti disumanizzanti sui dipendenti. Concepire l’organizzazione come una macchina scoraggia le iniziative, impedendo qualsiasi tentativo di migliorare ciò che si sta facendo: lo sviluppo delle potenzialità e delle capacità umane viene fortemente limitato. La conseguenza è la diffusione di un sentimento di malessere tra i lavoratori; se da un lato diminuiscono i costi di produzione, dall’altro inevitabilmente aumentano i costi umani (Morgan, 1986).

L’organizzazione come sistema sociotecnico e la persona come risorsa

Dalla fine degli anni ’20 del secolo scorso, numerosi studi organizzativi[2] hanno cercato di superare i limiti dell’approccio meccanicistico, dimostrando che il funzionamento dell’impresa è strettamente legato a fattori relazionali ed evidenziando l’importanza che i bisogni sociali ricoprono anche sul posto di lavoro (Pedon & Maeran, 2002).

Vengono introdotti i primi miglioramenti negli ambienti lavorativi e iniziano a formarsi i presupposti concettuali di quella che oggi chiameremmo “gestione delle risorse umane”: i dipendenti sono delle risorse dotate di particolare valore e, nel momento in cui vengono offerte loro le adeguate opportunità, riescono ad apportare un grande contributo alle attività dell’organizzazione (Morgan, 1986).

Nel progettare le organizzazioni, gli esperti di management iniziano ad integrare agli aspetti tecnici del lavoro anche quelli umani. Il modo migliore per comprendere le organizzazioni diviene così quello di concepirle come “sistemi sociotecnici” (Brown, 1967).

Questo secondo filone è ben rappresentato dalla metafora di Morgan che paragona le organizzazioni a degli organismi viventi, mettendo in evidenza il fatto che per una migliore gestione delle organizzazioni occorre prestare sistematicamente attenzione ai bisogni degli individui e dei gruppi che vi lavorano. Questi, infatti, esattamente come accade per ogni altro essere vivente, continuano a vivere e riescono a svolgere le proprie attività nel migliore dei modi grazie al soddisfacimento dei loro bisogni, non solo primari ma anche secondari (in particolar modo quelli di natura psicologica e sociale).

Nel progettare il modo in cui intende raggiungere i propri obiettivi, l’organizzazione deve necessariamente integrare i propri bisogni a quelli delle persone al suo interno, andando così a creare una relazione meno asimmetrica e più collaborativa con i propri dipendenti.

L’organizzazione come sistema aperto e il capitale umano

Tra la fine degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60, il mondo del lavoro è andato incontro a quello che è stato definito il “miracolo economico”; nei decenni successivi la concorrenza tra imprese si è fatta sempre più spietata e i mercati hanno iniziato a saturarsi; il processo di globalizzazione si è esteso e il mondo politico, economico e sociale ha cominciato a mutare continuamente.

Per rimanere sul mercato in un ambiente economico così instabile, i manager hanno dovuto iniziare a concepire le organizzazioni come dei sistemi aperti e ciò ha principalmente due implicazioni.

Innanzitutto, così come un sistema non può essere concepito separato dall’ambiente in cui è inserito, allo stesso modo un’organizzazione non può essere considerata come isolata dal proprio contesto economico, politico, tecnologico e culturale. L’efficacia delle strategie di un’organizzazione dipende dalla loro conformità con le condizioni ambientali e tecnologiche con le quali si deve confrontare. Possiamo quindi affermare che con questo approccio l’ipotesi taylorista della “One best way” viene soppiantata dalla “Own Best way” (Netland, 2012).

In secondo luogo, intendere l’organizzazione come un sistema aperto implica il concepirla come costituita da più sottosistemi che sono fisiologicamente interconnessi, interagenti e interdipendenti tra loro. A livello operativo, questi sottosistemi potrebbero rappresentare le diverse funzioni aziendali, che si scambiano continue informazioni e che hanno specifici obiettivi. A livello relazionale, invece, adottare una visione sistemica significa essere consapevoli che le decisioni, gli stati d’animo, l’impegno, la soddisfazione di ogni singolo individuo si manifestano sul funzionamento dell’intera organizzazione (Avallone, 2011; Senge, 2000).

In uno scenario in costante cambiamento e con l’inizio dell’era che Peter Drucker (1980) definisce dell’“economia dell’intelligenza”, la principale risorsa per l’organizzazione diventa il cosiddetto “capitale umano”. Questo è costituito da quell’insieme di conoscenze, competenze, attitudini, comportamenti, emozioni e abilità relazionali di cui le persone dispongono e su cui ogni moderna organizzazione dovrebbe investire non solo attraverso un incremento delle attività formative, ma anche mettendo in atto specifiche strategie e tecniche di sviluppo del potenziale umano (quali il mentoring, il coaching e la job rotation).

La metafora di Morgan che meglio rispecchia questo terzo filone è quella che assimila le organizzazioni a dei cervelli. Prendendo in considerazione il cervello dal punto di vista del suo funzionamento, è impossibile sostenere che ci sia un’unica unità centrale che immagazzina, mantiene ed elabora tutte le informazioni. Intendere un’organizzazione come un cervello, significa concepire il lavoro in maniera olistica: le persone sviluppano all’interno del contesto organizzativo competenze e abilità diverse, agendo in modo flessibile e organico.

La metafora del cervello ci invita quindi ad una revisione dei concetti che stanno alla base della filosofia manageriale e la relazione tra persona e organizzazione inizia a prendere una nuova forma. Si tratta innanzitutto di una relazione connotata da una forte interdipendenza, in cui è necessario enfatizzare la collaborazione e promuovere una comunicazione che non sia solo top-down; soltanto in questo modo è possibile costruire una conoscenza diffusa che consente di beneficiare e di far emergere il potenziale del capitale umano che si ha a disposizione.

In conclusione, da questa breve panoramica, si può evincere come da un tipo di relazione fortemente asimmetrica, in cui l’autorità e la responsabilità sono centralizzate e in cui la persona svolge un ruolo puramente esecutivo, si sia gradualmente passati ad una relazione di interdipendenza, in cui vi sono linee di comunicazione e strutture orizzontali e in cui vengono coinvolti i lavoratori a tutti i livelli. Occorre però precisare che tale evoluzione è in parte solo “ideale”. Questo perché, nonostante da un punto di vista storico alcuni principi risalgono a più di un secolo fa, molte organizzazioni moderne continuano ad applicarli e a mettere in atto filosofie manageriali basate ancora sulla logica del controllo. Non stupisce però che spesso siano proprio queste organizzazioni a riscontrare i maggiori problemi in termini di ansia, stress e insoddisfazione dei propri lavoratori.


Bibliografia

Avallone, F. (2011). Psicologia del lavoro e delle organizzazioni: costruire e gestire relazioni nei contesti professionali e sociali. Roma: Carocci Editore.

Brown, W. (1967). Struttura informale? In W. Brown & E. Jacques (a cura di). Nuovi orizzonti per la direzione aziendale. Torino: Isper.

Drucker, P.F. (1980). Managing in turbolent times. New York, NY: Harper and Row.

Fayol, H. (1916). Administration industrielle et generale. Paris, Francia: Dunod Editeur. (trad.it. Direzione industriale e generale. Programmazione, organizzazione e controllo, Guerini e associati, Milano, 2011.

Grandori, A. (1995). L’organizzazione delle attività economiche. Bologna: il Mulino.

Herzberg, F., Mausner, B., & Snyderman, B. (1959). The motivation to work. New York, NY: John Wiley and Sons.

Kanigel, R. (2005). The one best way: Frederick Winslow Taylor and the enigma of efficiency. MIT Press Books, 1.

Maslow, A.H. (1943). A theory of human motivation. Psychological Review, 50, 370-396.

Mayo, H. (1933). The human problems of an industrial civilization. New York City, NY: Macmillan.

McGregor, D. (1960). The human side of enterprise. New York, NY: McGraw-Hill.

Morgan, G. (1986). Images of organization. Beverly Hills, CA: Sage Publications. (trad. it. Images. Le metafore dell'organizzazione (Vol. 8), FrancoAngeli, Milano, 2007).

Netland, T. (2012). Exploring the phenomenon of company-specific production systems: One-best-way or own-best-way?. International Journal of Production Research, 51, 1084-1097.

Pedon, A., & Maeran, R. (2002). Psicologia e mondo del lavoro. Temi introduttivi alla psicologia del lavoro. Milano: LED Edizioni Universitarie.

Senge, P.M. (2000). The academy as learning community: Contradiction in terms or realizable future? Leading academic change: Essential roles for department chairs, 4, 275-300.


[1] Tra le teorie classiche si ricordano inoltre la teoria burocratica di Weber (1922) e la teoria della direzione amministrativa di Fayol (1916).

[2] Tra i principali contributi che hanno portato allo sviluppo di questo secondo filone, si ricordano quelli di Mayo (1933), Maslow (1943), Herzberg (1959) e McGregor (1960).


A cura di Lucrezia Pedana (partecipante dell'Executive Master in Direzione del Personale)

Questi ed altri temi sono affrontati nei Master in area HR, Lavoro, Paghe e Sviluppo.

Ultima modifica il 29/11/2021

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