La tutela della lavoratrici madri nel nostro Paese

Quando parliamo di maternità, ci riferiamo alla fase in cui le lavoratrici devono astenersi obbligatoriamente dal lavoro, durante il periodo di gravidanza, di adozione o affidamento di minori. La tutela della lavoratrici madri nel nostro Paese nasce da una lunga evoluzione normativa, che ha inizio con l’art. 37 della Costituzione “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alle madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, per poi passare, negli anni ’70, all’emanazione di norme a tutela delle lavoratrici madri, che sono state nel corso degli anni modificate e rinnovate attraverso varie riforme. Il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro è di 5 mesi e normalmente, come indicato dall’INPS, comprende i 2 mesi precedenti la data presunta del parto e i 3 mesi successivi al parto. Si possono verificare anche altri casi, come un mese precedente al parto e  i 4 mesi successivi, previo parere medico oppure nel caso in cui il medico attesti che non ci siano problemi per la salute della gestante, i 5 mesi successivi al parto. Durante questo periodo le lavoratrici non percepiscono la  retribuzione ordinaria, bensì  un’indennità economica pari all’80%. La sicurezza e la salute della madre lavoratrice e del suo bambino sul luogo di lavoro è un fattore fondamentale, ad esempio se l’attività lavorativa svolta può risultare pericolosa, faticosa o viene svolta in orari notturni, la lavoratrice deve essere adibita a svolgere altre mansioni o, nell’impossibilità di effettuare questo cambio, viene disposta l’interdizione dal lavoro. Ciò avviene esclusivamente per tutelare la lavoratrice. Al rientro dalla maternità potrà tornare a svolgere il ruolo precedente a meno che, non vi sia un accordo con il datore di lavoro per andare incontro al suo interesse o nel caso in cui la mansione svolta in precedenza sia incompatibile con la maternità successiva.

Purtroppo e nella maggior parte dei casi non è questa la realtà.

Sempre più spesso assistiamo a discriminazioni e violazioni nei confronti delle neomamme rientrate a lavoro. Questi comportamenti prendono il nome di “mobbing”, che deriva dall’inglese “to mob” assalire, molestare e indica una forma di abuso  ovvero “un insieme di comportamenti aggressivi di natura fisica e/o verbale, esercitati da una persona o da un gruppo di persone nei confronti di uno o più soggetti”. Nel mondo del lavoro il mobbing ha diverse sfaccettature, ma lo “scopo” principale è quello di portare, nel nostro caso, le lavoratrici madri alle dimissioni senza tutelarne i diritti. Questo fenomeno, purtroppo, è molto frequente in Italia e avviene per lo più perché le lavoratrici diventate madri, vengono considerate “meno produttive”, come scrive Arianna Giunti in un’inchiesta pubblicata su L’espresso. Secondo i datori di lavoro le donne rientrate dalla maternità sono distratte dai loro problemi e dai loro bambini  e non ci si può fare affidamento. Con queste “motivazioni”, le neomamme dopo il periodo di congedo, vengono isolate, svolgono ruoli con mansioni inferiori non ritrovando più il loro ruolo professionale, subiscono richiami per futili motivi anche da parte di colleghi e dopo anni, nonostante le capacità, gli viene impedita la crescita professionale a discapito di colleghi maschi o colleghe senza figli.  Ed è proprio tutta questa pressione a livello psicologico che dopo un certo lasso di tempo, nella maggior parte dei casi, le costringe, esauste e umiliate, al licenziamento volontario. Ecco che l’azienda ottiene quello che ha sempre voluto senza sporcarsi le mani. Potremmo definire il mobbing come una sorta di “strategia aziendale”, con la precisa intenzione di escludere dall’attività lavorativa le lavoratrici “scomode”, in quanto per molti il binomio madre-lavoro, così come madre-carriera, non può coesistere.L’Italia non è un paese per mamme” scrive Paola Setti, giornalista, nel suo libro che racconta le testimonianze sulle condizioni delle madri lavoratrici. “Nel 2018 le donne che hanno dato le dimissioni sono state 30.672, la maggior parte per l'impossibilità di conciliare lavoro e figli. Quelle che restano in azienda, spesso rinunciano alla prole. Il 57% dei dirigenti donne non hanno figli, contro il 25% dei dirigenti maschi.” Ma il fulcro del problema sta nella cultura prevalentemente maschilista del nostro Paese? Probabilmente si, infatti, al giorno d’oggi, se le donne vogliono lavorare e realizzarsi devono essere come gli uomini. Come scrive Setti “le donne hanno ottenuto la parità, ma una parità a misura d'uomo”.

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Sitografia

  • https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=46122
  • https://www.savethechildren.it/blog-notizie/maternita-e-lavoro-diritti-tutele-in-caso-violazioni
  • https://espresso.repubblica.it/attualita/2015/03/30/news/il-mobbing-post-maternita-colpisce-mezzo-milione-di-lavoratrici-ogni-anno-1.206373?refresh_ce
  • https://www.senato.it/1025?sezione=122&articolo_numero_articolo=37
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Mobbing#Nel_lavoro
  • https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/moda/2019/11/14/italia-non-e-un-paese-per-mamme-lavoratrici_bc84e378-f5a2-4038-a2fc-a71c1d362c50.html

A cura di G. Cerenzia, N. Costanzo, L. Palmariggi e F. Tumore (partecipanti dell'Executive Master in Risorse Umane, dell'Executive Master in Direzione del Personale e dell'Executive Master in Amministrazione del Personale )

Il percorso per diventare esperto in materia di Amministrazione del Personale richiede determinazione e impegno: per la formazione delle competenze specialistiche, c'è il Master in Amministrazione del Personale e Consulenza del lavoro di Meliusform Business School.

Ultima modifica il 18/05/2020

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